Quanti ricordi possono farsi strada mentre si assiste al debutto della nuova creazione di Romeo Castellucci, Uso umano di esseri umani, negli spazi in via di ristrutturazione dell’ex ospedale detto dei Bastardini giacché per parecchi secoli destinato all’assistenza dei figli illegittimi. E anche un poco di emozione nel salire di nuovo, forse sono passati vent’anni, lo scalone che porta al piano nobile dello storico palazzo. Qui infatti una volta c’era un teatro. E lo conosciamo abbastanza per averlo in altri tempi assiduamente frequentato, per un momento cercando anche di promuovere le nuove frontiere del teatro italiano, fra cui la quasi esordiente Societas Raffaello Sanzio.

Lo spettacolo di allora, molto divertente, si intitolava Popolo zuppo e ricordo ancora le lunghe telefonate notturne per convincere critici più titolati a venire a vedere questi ragazzi di cui Beppe Bertolucci, prima di tutti, aveva intuito le potenzialità. Un paio d’anni dopo i ragazzi di Cesena erano alla Biennale di Venezia. (Come poi sono andate le cose non è un mistero, le mafiette locali hanno alzato la voce contro gli indesiderati intrusi e la contemporaneità del teatro è stata espulsa dalla città e da allora non vi ha fatto più ritorno).

Se ritorno a quegli anni felici non è per nostalgia ma perché là riporta questo Uso umano di esseri umani (coprodotto con il Kunstenfestival di Bruxelles, lo spettacolo sta al centro della lunga rassegna E la volpe disse al corvo dedicata all’artefice della Societas). Quattro tute bianche protette anche da maschere antigas fanno rotolare un disco più grande di loro, che su anelli concentrici e tagliati a spicchi reca inscritto il vocabolario essenziale di quella «lingua generalissima» sperimentata proprio nello spettacolo veneziano del 1984, Kaputt Necropolis; quattrocento parole sulla fascia più esterna che per gradi si riducono a quattro soltanto, al centro.

Ma i punti di contatto fra i due lavori si fermano qui, a questa sorta di ritrovamento archeologico o di disseppellimento di lontane vestigia. Che non va senza un qualche pericolo, sembrano dire quelle protezioni da sostanze nocive, quasi fossimo entrati in una zona da Stalker dei fratelli Strugackij.

E infatti ristagna nella sala un odore di ammoniaca che punge gli occhi, alimentato da una canalina che taglia a metà lo spazio e potrebbe ricordare concettualmente una scultura di linfa di Giuseppe Penone, il totemico simulacro di una natura perduta. È solo il prologo che introduce a quell’«esercizio in lingua generalissima» promesso dal sottotitolo dello spettacolo. Per il quale bisogna spostarsi in un’altra sala, ancora più grande e affrescata, dove campeggia sul fondo una riproduzione della Resurrezione di Lazzaro dipinta da Giotto per la cappella degli Scrovegni, a Padova. Davanti al dipinto si fronteggiano due giovani vestiti in maniera formale, molto borghese; c’è anche un gruppo di ragazzi, muti osservatori raccolti da un lato, quasi a riprodurre la scena pittorica in un altro tempo, che non è il nostro né quello evangelico. E il disvelamento della matrice iconografica, dapprima nascosta da una sorta di imballaggio, chiarisce anche le parole che si scambiano. L’uno che invita a non aver paura di vivere; l’altro che non vuole essere resuscitato, vuol restare nella parte della morte, e gli risponde: non ti amo, ti temo. E già si erano uditi i nomi di Marta e Maria…

Ed ecco che, uno dopo l’altro, si annunciano e poi si sviluppano gli esercizi sui quattro successivi livelli della «lingua generalissima», cioè la ripetizione ostinata di quella stessa scena in una progressiva rarefazione verbale che muove verso l’astrazione, verso una diversa forma di comunicazione, in parallelo con l’oscuramento anche dello spazio scenico, fin lì illuminato dalla luce naturale del giorno. Fino al turbinare di quelle sole quattro parole chiave. Agon, apotema, meteora, blok. Che non vogliono più descrivere, che non servono più a capire ciò che dovrebbe essere capito per altre vie.

Ma che, dice Uso umano di esseri umani, mutano anche il senso se non il contenuto di quel dialogo divenuto incomprensibile, fino a concluderlo con un abbraccio che spezza la staticità con cui si era prodotto fino ad allora. Il disco rotolante che funge da dizionario di quella lingua creola è ormai arrivato fino a lì, sospinto da un fragore di tuono e dal galoppo di un cavallo di cui sono rimasti solo i garretti, che già l’aveva accompagnato alla partenza. E diventa l’oggetto e lo strumento di una processione funebre in cui convergono parola e azione, corpo e iconografia.

La resurrezione della «lingua generalissima» si è compiuta per un’ora e, come prima Lazzaro, anch’essa vuole forse tornare nella parte della morte. All’altro capo della sala hanno preso a suonare dei lunghi corni tibetani. Andranno avanti a lungo, a lungo…