Una politica nuova così vecchia non s’era mai vista. Nell’arco di 24 ore si è consumata una sagra versione kolossal della peggior tattica, dei giochi delle parti, delle schermaglie democristiane. Nella notte tra lunedì e martedì Matteo Renzi ha completamente rovesciato il suo schema di gioco. Se finora l’asse sulle riforme era stato quello del Nazareno, e chi si vuole aggregare faccia pure, ora il perno è la maggioranza, e sta a Fi decidere cosa vuol fare. Dal vertice notturno esce quindi una legge ritagliata sugli interessi dei vari partiti e sottopartiti della maggioranza: premio alla lista per chi supera il 40% o vince il ballottaggio, come vuole Renzi; soglia di sbarramento bassa, al 3%, come pretende l’Ncd; aumento della quota di eletti con le preferenze, per far contenta la minoranza Pd. La soglia, però, è tenuta così bassa per disporre di una merce di scambio con Berlusconi e alzarla al momento buono fino al 4, giusto per consentire al socio di ingoiarsi il premio di lista senza fare la figura del cornuto e mazziato.

La palla passa in campo azzurro, dove alle 17 si riunisce l’ufficio di presidenza. La giornata parte con i nervi più che tesi. Brunetta, ingordo, già dà per morto l’odiato Nazareno: «Se Renzi vuole cambiare così l’Italicum vada avanti da solo». Se lo mangiano seduta stante e lui si ritira in buon ordine: opinione personale. A pranzo Berlusconi cerca con successo di sminare l’imminente riunione convocando intorno al desco Fitto il ribelle insieme a Verdini e Letta, i supernazareni. Il risultato è un pastrocchio incomprensibile, che verrà poi illustrato dal capo di fronte al suo stato maggiore. «Non accetteremo diktat», tuona. Il che però non significa tirarsi indietro dal processo di riforme. Infatti lo stesso capo supremo viene delegato a trattare con il socio (o forse ex). Quando? Oggi stesso, nell’incontro tra i due leader. «Non è in agenda», aveva detto Romani a voce alta. Significa solo che ancora non sono fissati ora e luogo, sussurravano in contemporanea forzisti che contano. «L’incontro? Non so se è confermato, ma alla luce della disponibilità di Berlusconi a trovare un accordo immagino possa esserci un confronto in tempi rapidi», dissertava la Boschi. Gava non avrebbe saputo dirlo meglio. Poi l’incontro viene annunciato per le 18. «Ci attendiamo che le modifiche siano ritirate», spiega al termine del meeting di Fi il solito Romani con la faccia cattiva. Poi si stampa in faccia il sorriso conciliante: «Siamo comunque disponibili a restare in campo per le riforme». Il senso della contraddittoria presa di posizione lo illustra Gasparri: «Non rompere e non subire». Per le «convergenze parallele» e formule affini è una seconda primavera.

Renzi non è da meno. Come al solito ricorre al cinguettio che è più drastico: «Il tempo dei rinvii è finito. Ora è tempo di decidere». Nella commissione Affari costituzionali del Senato suona una musica diversa. Al termine dell’ufficio di presidenza la presidente Finocchiaro giura che ce la si può fare entro dicembre, ma certo «la rapidità dipende dal clima di condivisione che si crea» e comunque «la presidente del gruppo misto-Sel De Petris ha posto problemi seri, perché c’è il rischio che venga penalizzata la rappresentanza». Insomma, bisognerà approfondire. E ci vorrà del tempo.

Nella festa della democristianità Alfano non può mancare: «Se Berlusconi non userà il Nazareno come strumento contundente noi siamo pronti a rivalutare una prospettiva di centrodestra». Allo stesso tempo sonda il terreno in vista di una possibile prospettiva di accordo con il Pd. Due forni sono meglio di uno.
In questo caotica sceneggiata raccapezzarsi è difficile, ma non impossibile. Le cose sono più semplici di quanto non sembri. A determinare la crisi era stata la volontà di Renzi di tenersi aperta una porta per le elezioni in primavera. Quella via è stata sbarrata da Napolitano. Matteo l’Annunciatore non ha del tutto smesso di sperarci, e per questo insiste col capo dello Stato perché rimandi il mesto giorno degli addii. Se non ci riuscirà la strada delle urne sarà chiusa una volta per tutte e a quel punto la sola parola d’ordine sarà «tenere tutti insieme». Dove il «tutti» include le rispettive minoranze. La proposta al ribasso della soglia di sbarramento al 3% permette oggi a Berlusconi di fare il ringhioso ricompattando le frattaglie del suo partito. Domani gli consentirà di dire che portando la soglia al 4%, subito o nel corso di una mediazione in commissione al senato, ha ottenuto una vittoria clamorosa. La partita si chiuderà in contemporanea con l’elezione del nuovo presidente, in modo da barattare a man bassa su entrambi i tavoli. Sembra l’apologia della democristianità, ma non lo è. I democristiani erano meglio.