Angela Schanelec è della stessa generazione di Christian Petzold (Transit), come lui ha studiato all’Accademia di cinema e televisione di Berlino, e nei suoi film, sin dagli esordi, ricerca una diversa forma del racconto muovendosi tra spazi e personaggi. che alludono, che vivono di suggestioni, che non spiegano il proprio essere. La realtà – in termini descrittivi – non interessa la regista tedesca, la sua narrazione è fatta di partiture su cui i movimenti emozionali vengono messi a nudo cercandone l’essenza, le zone sensibili oltre le superfici.
È quanto accade in Ich War Zuhause, aber …(Ero a casa, ma… ) tra le proposte più forti del concorso, un titolo che richiama Ozu – Sono nato, ma – col quale la regista dice di condividere lo stesso desiderio di un cinema come invenzione, come pura forma. I protagonisti sono una madre e i suoi due figli, uno quasi adolescente, Philip, l’altra bimba. Il ragazzo torna a casa dopo essere sparito una settimana, sporco, stanco, pieno di tracce di terra, senza spiegazioni da dare. L’angoscia della madre, i pensieri di quei lunghissimi giorni sono racchiusi nell’ostinazione con cui si accanisce a ripulire la sua giacca. Le cose però in casa non possono tornare come prima, la cesura deve ricomporsi in un nuovo equilibrio. Ma quale?

ALL’ORIGINE c’è ancora un’altra frattura, la perdita del padre, un dolore che non unisce ma separa e che spinge i tre rimasti della famiglia ciascuno in una direzione: la donna insegnante avviluppata nelle sue incertezze che sfiorano l’isteria, il ragazzo verso una nuova indipendenza, che è poi quella dell’età, la bimba confortata dal fratello ma spaesata nella ricerca di un suo ruolo.
Schanelec utilizza una gestualità trattenuta, pochissimi dialoghi, il rimando costante a un altrove, una natura enigmatica e rituale in cui si riflettono i sentimenti dei suoi protagonisti. Non è metafora ma corpo; i corpi esprimono malessere, incertezze, paura della morte; specie quello della madre, Astrid, la brava attrice Maren Eggert, che sembra attraversare il mondo con piglio deciso e quando parla con un amico di teatro e di cinema rivendica una verità che può essere solo nella messinscena. L’Amleto recitato dai ragazzini, i dubbi della donna anche davanti a una bicicletta – che la tradisce però appena comprata – i silenzi: il film di Schanelec ponendosi fuori dal «romance» arriva a una verità che riguarda lo stare al mondo, un confronto quotidiano mai lineare, punteggiato di errori e di cedimenti in famiglia, coi figli, insieme agli altri. Al tempo stesso interroga il cinema e la sua materia, cosa significa oggi raccontare, quali sono le possibilità, e nei vuoti compone un paesaggio umano che illumina le nostre zone fragili, le contraddizioni del sentimento.

«Ne croyez surtout que je hurle» di Frank Beauvois

LA STESSA ricerca attraversa il film di Frank Beauvois, radicalmente all’opposto, viscerale e alla prima persona mediata però da infinite immagini di film degli altri, rimixate, rimontate, come un collage pazzo che corre tra i sussulti sentimentali del suo autore. La forma è un io che sviscera le sue ansie, la depressione dopo la fine di un amore, la morte del padre, la tana nella piccola provincia natale. Un diario che insieme a giornate cupe, vagabondaggi intermittenti, decisioni rimandate, gli amici e la solitudine e naturalmente il cinema si fa voce della realtà, della Francia oggi, dei suoi conflitti. Ne croyez surtout que je hurle (Forum) rimanda anche a una tendenza comune a diversi film della Berlinale, il monologo off – viene in mente davanti a questo film il magnifico Il peggio di noi di Corso Salani. Ma se lì la rabbia interrogava direttamente il cinema nel suo farsi, a partire dal ruolo del regista, qui il cinema appare appunto una mediazione nella quale la dimensione intima può incontrare quella collettiva: la realtà che esplode, terrorismo, repressione, leggi speciali, economie liberiste, il movimento delle Nuit debout, i flash ball, il paese dei diritti dell’uomo, la Francia, e la sua nuova fisionomia autoritaria.

QUESTA DISTANZA tra parola e immagine permette – anche di denudarsi senza retorica né timore del narcisismo; rende possibile parlare di malattia, di sussurrare la rabbia, il panico, l’ansia, le notti insonni, il sesso, l’apatia, tutto quello che c’è di segreto, la cui rappresentazione potrebbe essere persino un fastidio. Astrazione. Nelle immagini note che però non riconosciamo passa la messinscena, lì la prima persona di quel racconto si dà personaggio. Non è una distanza di sicurezza perché Beauvois mette in gioco ogni frammento di sé stesso; è invece lo spazio che permette a chi guarda, allo spettatore, di entrare nella storia, di riconoscersi anche in qualcosa, in una esperienza, in un vissuto. Il cinema come malattia, il cinema come cura.