In tempi di emergenza, quali quelli che viviamo in seguito alla pandemia in corso, sul numero novantasette della rivista Meridiana si discute delle emergenze che hanno segnato la storia italiana degli ultimi quarant’anni, vale a dire il terrorismo e la mafia. Il numero, curato da Paola Maggio e da Nino Blando, mette insieme contributi di storici, giuristi e magistrati per esplorare il nesso tra emergenza e politica che si è articolato attorno a questi due temi. Il percorso di riflessione che gli autori propongono, si snoda su due specifiche direttrici. La prima riguarda quella della tenuta dello Stato di diritto; la seconda concerne il rapporto tra magistrati e storici.

Il problema delle garanzie giuridiche, costituisce un nodo tuttora spinoso per l’assetto politico e delle libertà civili. La lotta al terrorismo, infatti, venne condotta attraverso l’implementazione di misure speciali, che vanno dalle supercarceri alla legislazione premiale, nonché alle deroghe alla presunzione di innocenza e all’habeas corpus. Inoltre, la categoria dell’emergenza, una volta introdotta, ha fatto da battistrada per emergenzializzare altri fenomeni sociali, come l’immigrazione clandestina.

LA CATEGORIA dell’emergenza inaugurata durante i cosiddetti anni di piombo, ha occupato in modo invasivo la scena pubblica italiana, fino a diventare il principale strumento attraverso cui declinare lo scontro politico. Ne è conseguita la successione quasi automatica di un’altra emergenza, vale a dire quella della mafia, che ha inglobato dentro di sé quella della corruzione.

La lotta alla mafia e quella al terrorismo, denotano alcune, cruciali similarità: alla deroga al garantismo penale, si aggiungono il transito di alcune professionalità giudiziario-penali da un’emergenza all’altra, nonché la centralità dei cosiddetti pentiti per costruire la risposta repressiva alla criminalità organizzata. Buscetta e Contorno, nel 1984, rappresentarono per Cosa Nostra quello che Peci aveva rappresentato per le Br quattro anni prima.

Attorno alla questione del pentitismo, si snoda il secondo percorso proposto dalla rivista. Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia rappresentano il materiale attorno al quale si sviluppa il lavoro della magistratura. La credibilità attribuita ad una fonte, l’oggettivazione di un riscontro rispetto alle evidenze a disposizione, costituiscono il prodotto finale di un’opera interpretativa e razionalizzatrice, ovvero di una costruzione intellettuale, che avvicina i magistrati agli storici. Con la differenza che i magistrati decidono delle libertà individuali, mentre gli storici interpretano i fatti del passato.

PER QUESTO MOTIVO bisogna rifuggire il pericolo di una scrittura giudiziaria della storia. A questo proposito, a giudizio di chi scrive, sarebbe stato necessario approfondire questo passaggio più a fondo. Vicende come quella del 7 aprile dimostrano come la sovrapposizione tra il giudice e lo storico rischiano di produrre frutti avvelenati, come la criminalizzazione di un decennio e di una pluralità di soggettività.

Un altro rilievo che va fatto, riguarda la categoria di terrorismo così come viene usata all’interno della rivista. Appare come una definizione generica, dentro la quale la strage di piazza Fontana e la lotta armata assumono la stessa connotazione. La criminologia critica, da anni, propone la categoria di violenza politica, che permette di fare luce sul carattere circolare dell’uso della forza, a partire dalla repressione statuale e dall’uso consapevole della violenza da parte dello Stato stesso. Il ricorso a questa categoria, potrebbe permettere di inquadrare meglio i rapporti Stato/mafia e di rilevare con più accuratezza la fallacia dell’uso ripetuto delle emergenze.