Il primo decreto del Ministero dell’Istruzione di quest’ulima fase recita: «La scuola come istruzione è chiusa e le attività didattiche sospese».

Mi chiedo cosa voglia dire ora, in questo momento, una frase così? Che vuol dire oggi «la scuola come istituzione»? E penso a quanta scuola vedo nelle stanze dei miei nipotini. Immagino che sarà così (meglio o peggio) nelle case di tanti. Ma penso anche a chi non ha il computer. Qualcuno dovrebbe riflettere sulle straordinarie risposte di studenti, famiglie, e, soprattutto insegnanti. E su quanta fatica e rispetto delle istituzioni. Per un attimo distogliamo lo sguardo dalla tragedia epocale del contagio e dai numeri delle vittime.

Fermiamoci per un momento sulla scuola, centro della vita delle generazioni future, colte nel momento di un passaggio epocale, portato in grembo da una globalizzazione e da una dittatura digitale che ormai ha travalicato gli argini. Applichiamo, se ci riesce, il principio dello jujitsu, la lotta giapponese, la capacità di assorbire l’attacco avversario e trasformarlo in vantaggio per noi.

Si dice che la scuola stia già cambiando sotto l’urto della crisi. In realtà la scuola è già cambiata, si è trattato forse della parte di paese più pronta. Una scuola terremotata, in questi ultimi vent’anni da riforme e controriforme.

Verrebbe da dire «lasciamola in pace perché è in grado di amministrarsi da sola». Non parliamo solo di ammodernamento di strutture e programmi, pure indispensabili. E dunque la capacità di lavorare a distanza è un fatto, che suggerisce e deve spingere a prendere in mano senza paura gli strumenti digitali e trasformarli in opportunità da coltivare con intelligenza, non come emergenza. Si potrà anche tornare ai compiti in classe su foglio protocollo, ma anche no. E allora la tentazione di questo, come di ogni governo, di mettere il cappello sulla scuola che cammina da sola deve essere cancellata una volta per tutte. Questa è un’altra delle opportunità di questa crisi.

La scuola porta in sé gli anticorpi per resistere al suo naturale invecchiamento e per produrre nuova cultura. E invece emergono «voglie mai sopite». Ritorna la proposta dell’abolizione del valore legale del titolo di studi. Che significherebbe aprire la concorrenza tra gli atenei e legare il valore della laurea, non al singolo, ma all’Università. Con svantaggio, ovviamente, per i meno abbienti. Il ministero, il governo, dovrebbero fare con chiarezza la loro parte: dar risposte agli interrogativi che contribuiscono a lasciare il quadro istituzionale nel caos, con insegnanti disorientati da indicazioni contraddittorie che invadono anche i campi di loro responsabilità.

E finirla di «governare» eliminando l’apporto, indispensabile in tempo di democrazia, degli organi collegiali che rappresentano una forza della democrazia. «È urgente – come si legge nel bel documento del Cidi – ristabilire senza ambiguità un orizzonte normativo chiaro. Non è accettabile che si continui ad agire all’interno di una insopportabile confusione tra il grande impegno dei docenti e le indicazioni del Ministero attraverso “Note” che non sono fonte di diritto e possono tradursi nelle scuole in applicazioni assai discutibili». E allora finiamola con rincorse a chi sarebbe «più avanti». Occorre invece «camminare insieme», imparando a condividere le scelte senza inutili contrapposizioni. Non è una gara, ma un dovere «civile». Resta aperto l’interrogativo più grande: e dopo? È una situazione che non avremmo mai potuto immaginare, fino a qualche mese fa, segnata da paura e incertezza esistenziale, che richiede a tutti, come mai prima d’ora, impegno e responsabilità.

Perché la scuola deve continuare a fare la sua parte, presidio di cultura e di democrazia nello spirito del mandato costituzionale, e questo dovrà segnare le scelte future che la riguardano.