Lo scorso anno è stato il 500° anniversario della Riforma protestante, perché nel 1517 Martin Lutero affisse alla chiesa di Witterberg le sue 99 tesi contro il papato romano, dopo lo scandalo della vendita delle indulgenze che i banchieri Függer trattavano per far cassa all’arcivescovo di Magonza. Le conseguenze sono note a tutti, e quelle tesi hanno cambiato il corso della storia. Conseguenze non solo religiose, ma politiche, e soprattutto nelle coscienze e nella quotidianità di tutto l’Occidente. Portare quel fatto, e soprattutto le sue implicazioni e le ricadute nel nostro modo di vivere, su un palcoscenico è una operazione impegnativa, e in Italia l’unico a poterla pensare e realizzare è stato Cesare Lievi: il più «tedesco» per formazione e conoscenza, dei nostri registi. E forse anche uno dei pochi registi importanti che abbiamo, in tempi che la regia stessa pongono in discussione.

L’intraprendenza poetica di Cesare Lievi si può ripercorrere ora anche nell’intervista che gli ha fatto Lucia Mor, appena pubblicata dall’editrice Morcelliana col titolo Un teatro da fare (pp. 124, 14 euro). Ma Lievi è notoriamente, oltre che uomo di teatro, anche autore e poeta, ed è quasi naturale che su un argomento così particolare e rischioso, abbia scritto egli stesso il testo necessario (anche se non era mancato qualche precedente anni fa). Un testo pieno di interesse e suggestioni, capace di intrecciare strettamente il valore e i modi di quella Riforma, con le sue ricadute sull’oggi, in 12 «stazioni» o lampi immaginari, che si muovono tra assunti teologici e storici, e la fisicità e le incongruenze delle loro ricadute esistenziali. Ne è nato un lavoro leggero quanto appuntito nelle immagini che propone, e insieme denso di storia e pensiero, da poter a momenti sconcertare lo spettatore che vi capiti, a cominciare dal titolo: Il giorno di un Dio (all’Argentina ancora stasera e domani). Per realizzarlo Lievi ha riunito «in ditta» un teatro pubblico austriaco, quello di Klagenfurt, con due nostri nazionali, quelli di Roma e dell’Emilia Romagna.

Ma soprattutto ha chiamato per le scene Maurizio Balò, che ha inventato una scena insieme semplice quanto complessa, in grado di trasformarsi continuamente. Perché l’azione anch’essa si «rovescia» continuamente, passando da gruppi o unità familiari, quasi cartine di tornasole per le teorie luterane, a citazioni e racconti storicamente accertati, come la reazione controversa dell’imperatore che non riuscendo a controllare a proprio vantaggio quelle teorie«libertarie», ne divenne nemico e persecutore (per non parlare del papato che per l’occasione armò la Santa Inquisizione della Controriforma). O anche il respiro che le stesse interpretazioni delle Scritture diedero ai primissimi tentativi di «comunismo», a Münster e Osnabrück, con grave smarrimento del medesimo Lutero, cui del resto altri seguaci, come Calvino, ne fecero le basi religiose del capitalismo.

Tutto questo scintillìo di citazioni, tra lampi storici e depressioni familiari, si srotola su tre sipari successivi, trasparenti o bui, e quando serve lavagne luminose. Necessarie per tradurre le battute in tedesco che si alternano a quelle in italiano. Ed equamente divisi per lingua e nazionalità sono anche gli attori, quattro tedeschi e quattro italiani, tra i quali risalta la grinta teatrale di Alvia Reale e di Graziano Piazza. Tutti impegnati a dare allo spettacolo un corso irruento tra le pause di respiro poetico.