Morire è femminile, uccidere è maschile: questo il punto fermo, fissato fin dal primo capitolo di Decapitate, Tre donne nell’Italia del Rinascimento, di Elisabeth Crouzet Pavan e Jean-Claude Maire Vigueur (traduzione di Rossana Lista, Einaudi, pp. 368, euro 32,00). Ci può essere un posto, nella storia, per la vicenda atemporale del femminicidio? Questa la domanda che ricapitola le molte poste dai due autori a ogni passo della loro ricerca.

Fondamentale quella iniziale: sarà solo per caso che nel breve spazio di un trentennio (1391, 1418, 1425) ben tre mogli di potenti signori – Agnese Visconti, Beatrice di Tenda, Parisina Malatesta – sono state fatte decapitare dai loro rispettivi coniugi? Nella domanda è implicita la risposta: no, quegli eventi non potevano essere casuali. Per capire, però, bisognava mettere via il lacrimoso leggendario romantico cresciuto come un’erba infestante intorno ai casi delle tre donne – specialmente a quello della Parisina, oggetto perfino di un poema di Byron. Si parte dall’ipotesi che qualcosa fosse cambiato, allora, per poi scendere nelle profondità del dimenticato e scoprire le forme del mutamento storico, che trascinò con sé le vite di tre donne come foglie portate dal vento. Da qui comincia una sapiente, accurata esplorazione di fonti d’archivio, scandita da nuove domande a ogni provvisoria scoperta. E la tensione della ricerca accompagna il lettore per le quasi trecento pagine del libro.

Titolari di poteri delegati
La promessa è di essere davanti a una storia che muta, che va avanti, progredisce. Progresso, ambigua parola: si potrebbe essere tentati di pensare a una progressione verso il peggio, considerando le dimensioni odierne del femminicidio. Invece, i due autori cercano nella storia i segni dell’avanzamento verso forme ulteriori di regole della convivenza. Li trovano intanto nella dimensione del potere: quello signorile, che all’epoca stava trasformando il panorama dell’Italia padana, era ai suoi inizi, ancora fragile e insicuro. Ma si consolida. Così, mentre il signore di Mantova sente il bisogno di istituire un processo e quello di Milano fa ricorso a un giudice da lui nominato, a Ferrara non c’è più bisogno di formalismi giuridici. E intanto la misura del loro uscire dalle regole è data dal numero di donne che sfoggiano e con cui tradiscono apertamente le mogli legittime. Le quali sono anche loro figure nuove nel panorama femminile del tempo: hanno una cultura raffinata, dispongono di schiere di servitori e di mezzi finanziari che investono in consumi di lusso. Certo, sono sposate da altri senza il loro libero consenso: ma così diventano titolari di poteri delegati e, in assenza o in morte del marito, possono addirittura sostituirlo.

Un caso speciale è quello di Beatrice di Tenda, che eredita dal primo marito (il condottiero Facino Cane) ricchezze ma anche milizie fedeli. E forse proprio la sua personalità e il suo carattere suscitarono l’avversione di un marito debole, malvagio e sessualmente incerto. Secondo Paolo Giovio (qui celato dietro l’irriconoscibile «Paolo Giove») fu lui a inventare un adulterio inesistente per potersene liberare. Si intravede in prospettiva la figura di Caterina Sforza e il celebre gestaccio suo agli assedianti dall’alto della rocca di Forlì. Con queste figure femminili, nel passaggio dal comune alla signoria, è «la donna che esce dall’ombra».

Non tutte le donne, naturalmente. E intanto il potere maschile sulla vita delle donne faceva anch’esso un grande passo in avanti: diventava arbitrario. E faceva morire le donne nelle ore incerte della sera e dell’alba, negli stessi luoghi cittadini e nei palazzi dove avevano vissuto da spose. Non c’è niente di legale. Tutto si svolge «nella sfera di un regolamento di conti familiare». È in forme remote da quelle previste dal diritto dell’epoca che questi tre casi accadono nel cuore del Rinascimento italiano.

Ma Elisabeth Crouzet-Pavan e Jean-Claude Maire Vigueur si rifiutano di chiudere la loro storia sotto il segno della vittoria di una violenza maritale ascesa a livelli inauditi. Certo, queste vicende non si prestano a fare di Parisina e Agnese delle «antesignane del femminismo». Ma è innegabile che questi delitti non sarebbero accaduti se le tre donne non ne avessero posto in qualche modo le premesse. Tutte e tre, con la loro importanza crescente all’interno della signoria come sistema, sembrano voler affermare il loro diritto a esistere e a godere di una qualche libertà. Così, almeno secondo i due storici.

Forse non tutti saranno d’accordo con questa visione progressiva degli accadimenti, che va oltre i dati documentali. Ma non si possono avere dubbi sulla conclusione che riguarda la parte maschile della vicenda, quello che gli autori indicano come il «senso profondo» di queste esecuzioni: «È come se questi prìncipi, ansiosi di possedere la grandezza di un re, affermando che la loro maestà era stata lesa e restaurandola dunque con la morte della loro sposa, abbiano inteso avanzare nella loro marcia verso un potere sovrano».
Mostrare la colpa
Fin qui, i temi principali di una severa e accurata ricerca esposta in pagine di seducente narrazione: si potrebbe chiudere così questa lettura necessariamente sommaria, col riconoscimento agli autori di avere scavato in profondità e di avere trovato la risposta a tutti i problemi via via emersi. Tutti o quasi: ce n’è uno che viene lasciato aperto. Forse intenzionalmente. Da esperti docenti, i due storici sanno come sia importante coinvolgere il lettore nella ricerca.
La domanda è: per quale ragione i mariti assassini, lungi dal nascondere la colpa della donna in questione, e il loro delitto, mostrarono invece la decisa volontà di darne notizia? Di fatto quelle morti non rimasero chiuse nell’ombra in cui erano avvenute. Tutti i contemporanei, non solo le famiglie delle uccise, ne furono subito messi al corrente. E ci fu anche il caso speciale di Francesco Gonzaga, il quale, a decapitazione appena avvenuta, mise all’opera la sua cancelleria per dar vita a una campagna epistolare, mirata ai tanti signori d’Italia coi quali aveva rapporti di parentela o vincoli di alleanza.

Pubblicità via lettera
Ci si chiede il perché di tanta cura nel dare pubblicità all’atto compiuto. È vero che la comunicazione epistolare tra le grandi famiglie della penisola si era andata intensificando proprio allora, in misura proporzionale alla fluidità politica del paesaggio italiano.
In quella fase storica, le vicende private – nascite, matrimoni, morti – non erano la minore tra le occasioni per stabilire alleanze e costruire o mutare le reti del potere. Ne era nato un flusso crescente di scambi epistolari, in funzione della fluidità dei mutamenti e della feroce competizione fra i tanti poteri, formali o informali, che in quel paesaggio si muovevano. Tuttavia, perché tanta cura nel dare pubblicità alla decapitazione di una donna che era pur sempre la figlia di una potente famiglia? I nostri due storici hanno preso molto sul serio l’interrogativo.

Hanno cercato traccia di quelle lettere esplorando pazientemente i tesori di corrispondenze conservati negli archivi italiani. Speravano di ricavare qualche lume dai testi. Non hanno avuto fortuna. Ma la loro esperienza ha confermato una vecchia regola della ricerca: non sempre si trova quello che si cerca, però si trova sempre qualcosa. Difatti, davanti alla fittissima serie di brevi biglietti e di lunghe lettere inviate da una folla di scriventi per ogni evento delle corti, triste o lieto che fosse, hanno scoperto un fatto importante: che quella comunicazione scritta non era «privata» o «pubblica», ma era essa stessa una costruzione del ‘politico’, continuamente ridefinito attraverso l’interazione di molti attori.

Resta apparentemente insolubile il problema del perché comunicare a suon di tromba una decapitazione coniugale. Ma la risposta c’è, anche se non è complessa come quella che si va cercando. È anzi molto banale: come non pensare che l’essere traditi dalla moglie riuscisse a disonore del maschio? Fin dal mondo antico greco e romano uccidere l’adultera e l’amante suo era considerato giusto e necessario. E il tentativo di Giustiniano di limitare le uccisioni imponendo al marito tradito l’obbligo di mandare ben tre diffide all’amante della sua donna fu travolto dalle risate dei giuristi. I quali ben sapevano come donne e uomini fossero d’accordo nel ritenere non solo obbligata l’esecuzione capitale dell’adultera, ma anche necessaria la più ampia pubblicità del fatto. Bisognava evitare al maschio il micidiale ridicolo delle corna. «Martinus de Cornigliano» si chiamava l’immaginario autore della diffida legale rivolta all’adultero «Tristano de Bravi» nell’aneddoto circolante tra avvocati e giudici. Lo riportò Giovanni Nevizzano d’Asti nella sua «Silva nuptialis».

I nomi sono di per sé eloquenti di una radicata mentalità. La citava un secolo fa Nino Tamassia, il grande studioso della famiglia italiana del ’500. E proprio nel ’500 un celebre avvocato – Francesco Guicciardini – ebbe a scrivere che la vendetta del marito non procede da odio ma «è talvolta necessaria». Per i disegni politici del signore era necessario scrivere, informare comunque al più presto il maggior numero possibile di persone: tutti dovevano sapere che quell’ambizioso marito, titolare di un potere personale grande ma ancora malfermo, era un montone dalle tante pecore e non il «becco» che porta le corna. Era questo, anche allora, il modello dell’antropologia popolare italiana ricostruito anni fa da Anton Blok. Divorzio all’italiana: Pietro Germi l’aveva capito bene.