Si è conclusa lo scorso sabato, in Puglia, la quarta edizione della spedizione «Difendiamo il mare», il tour di ricerca scientifica e sensibilizzazione organizzato da Greenpeace Italia in collaborazione con CNR-IAS di Genova e Università Politecnica delle Marche. Partito il 21 giugno da Ancona, ha solcato per tre settimane l’Adriatico centro-meridionale a bordo della barca a vela Bamboo della Fondazione Exodus di Don Mazzi per documentare la bellezza e la fragilità del mare e per denunciare come i cambiamenti climatici e l’inquinamento da plastica siano interconnessi e producano impatti negativi sull’ecosistema marino e sulle comunità costiere. Anche nell’Adriatico, come era accaduto negli anni scorsi nel Tirreno, la spedizione ha documentato chiazze di rifiuti galleggianti e ingenti quantità abbandonate sulle spiagge di guanti monouso, involucri, imballaggi, bottiglie. Ma anche attrezzi da pesca, come le cassette in polistirolo usate per conservare il pescato, o le famigerate reti tubolari in cui vengono allevate le cozze che finiscono sulle nostre tavole. L’emergenza plastica è un fenomeno che ogni giorno assume proporzioni sempre più drammatiche e che non risparmia nemmeno le aree marine protette, segno inequivocabile che l’inquinamento in mare non ha confini. Se è ormai evidente a tutti che i rifiuti in plastica inquinano il mare, pochi sanno che la produzione di plastica, che deriva dalla raffinazione di gas fossile e petrolio, ha conseguenze altrettanto devastanti per l’ambiente e contribuisce ad aggravare l’emergenza climatica in corso. La crescente produzione di plastica, destinata a triplicare entro il 2050, potrebbe infatti trainare la futura crescita della domanda di petrolio per una quota che va dal 45 al 95%, fornendo l’ancora di salvezza per aziende come Shell, Exxon, BP, Eni, Ineos, che potranno perseverare nel loro business inquinante basato sui combustibili fossili. Inquinamento da plastica e crisi climatica sono quindi due facce della stessa medaglia, entrambe riconducibili a un’economia basata sullo sfruttamento delle fonti fossili.

Questa situazione è ben nota alle persone che vivono a Brindisi, altra tappa del nostro tour, dove si trova uno dei principali poli petrolchimici per la produzione della plastica nel nostro Paese. Chi vive a Brindisi assiste da anni alle frequenti fiammate delle torce a cui sono associate le emissioni di pericolosi gas inquinanti, come il benzene, che ha più volte raggiunto livelli preoccupanti nell’aria. Per tutelare la cittadinanza da questo inquinante, nella primavera del 2020 il sindaco della città aveva imposto uno stop alle attività del petrolchimico e successivamente chiesto l’installazione di una rete di centraline per misurare la presenza di inquinanti nell’area limitrofa all’area industriale. Ma il ministero della Transizione Ecologica non ha accolto la richiesta, inducendo il primo cittadino della città pugliese a presentare un ricorso al Tar per proteggere la collettività. Questo purtroppo non è l’unico caso in cui la tutela della salute e dell’ambiente si scontra con gli interessi industriali. Se vogliamo una vera transizione ecologica bisogna avere il coraggio di abbandonare le produzioni inquinanti e decarbonizzare la nostra economia, lasciandoci alle spalle non solo l’uso di petrolio e gas fossile, ma anche i prodotti derivati, a partire dalla plastica monouso.