Di fronte all’ascesa dei movimenti e dei leader neo-populisti nel mondo, il dibattito delle scienze sociali si è articolato in due grandi posizioni: da una parte, quelli che hanno interpretato questi nuovi attori come il prodotto perlopiù contingente delle disfunzioni della democrazia rappresentativa; dall’altra, quelli che sostengono il carattere strutturale e dunque tendenzialmente permanente del neo-populismo. Dato di partenza per entrambi è la crisi della globalizzazione neo-liberale, innescatasi nel 2007-2008.

Il libro di Ferruccio Capelli Il futuro addosso. L’incertezza, la paura e il farmaco populista (Guerini e Associati, pp.214, euro 19,50) cerca una mediazione tra queste due posizioni, offrendo una lettura di lungo termine delle radici sociali del neo-populismo. Per Capelli, infatti, le mobilitazioni neo-populiste sono il prodotto strutturale della «grande trasformazione» apportata dalla globalizzazione, sin dal suo apparire, all’indomani del crollo del socialismo reale. In particolare su tre piani: quello politico e della sfera pubblica, con la comparsa della «democrazia disintermediata». Una forma politico-comunicativa, alimentata in particolare dalle tecnologie digitali, nella quale i corpi intermedi (partiti, associazioni, sindacati ma anche mass media) entrano in crisi nella loro funzione di mediazione degli interessi e di rappresentanza a favore di un pluralismo politico individualizzato, disorganizzato, dominato dalle connessioni virtuali e dirette tra cittadini e leader (si pensi alla centralità di Twitter nello stile politico di Trump).

QUELLO SOCIALE, con l’evaporazione dei legami di gruppo e comunitari. Un processo che getta nella solitudine involontaria la gran parte delle persone, collocandole in una nicchia di insicurezza, paura e ignoranza crescente. Quello culturale, con il declino di quelle «grandi narrazioni» novecentesche legate a parole chiave come progresso, che non consentono più né di immaginare il futuro né di decodificare i cambiamenti in atto, producendo un senso di spaesamento e impotenza generalizzati. Questi tre processi hanno inverato la diagnosi che Christopher Lasch aveva formulato già negli Anni Novanta del Novecento: un crescente divario tra le élites politiche ed economiche avvantaggiate dalla globalizzazione e i ceti medi e popolari, verso i quali si sono scaricati i costi della «grande trasformazione».

NEL MOMENTO in cui tramonta l’interscambio tra questi macro-gruppi sociali e si accentua l’incomunicabilità politica, sociale e culturale tra il «vertice» e la «base» della piramide sociale, la democrazia rappresentativa perde la possibilità di funzionare adeguatamente. Privata di una reale classe dirigente e di un pubblico informato e partecipativo.

IL NEO-POPULISMO è allora un attore politico, uno stile comunicativo e di leadership, e una narrazione che nasce come tentativo di offrire, con i mezzi e i linguaggi a disposizione (come quelli della democrazia disintermediata), nuove modalità di rappresentanza in particolare ai più colpiti dalla globalizzazione: i ceti popolari.
Per Capelli, dunque, il neo-populismo sarebbe soprattutto un umore, uno stile, una mentalità politica prevalente che, nelle sue magmatiche e multiformi espressioni, ripropone la centralità del popolo e ne costruisce identità e forme attraverso l’appello diretto del capo (ormai post-ideologico), l’individuazione di continui nemici (prime, tra tutti, le élites), rei di affamare o tradire il popolo stesso, attraverso vari, presunti, «complotti».

Il neo-populismo è insomma la risposta politica regressiva, la «retrotopia» contemporanea opposta allo spirito utopico della modernità della quale parla Bauman, che si afferma non dalla crisi della globalizzazione ma, al contrario, dal suo trionfo. Il neo-populismo è dunque un farmaco nel doppio senso etimologico del termine: è ciò che cura ma anche ciò che avvelena. Ciò che fa emergere il problema non più rinviabile della rappresentanza popolare e democratica all’interno della globalizzazione, e ciò che rischia di precipitare il mondo in una nuova epoca di chiusura, intolleranza e persino guerra mondiale. Capelli propone una nuova battaglia politico-culturale come tentativo di costruzione di percorsi di sottrazione dei ceti popolari e medi dalle sirene del neo-populismo, attraverso la trasformazione del modello di sviluppo. Questi deve essere meno diseguale, più sostenibile e maggiormente centrato sull’obiettivo di favorire la crescita delle competenze e delle chance di vita delle persone, in tutto il mondo.

ESATTAMENTE nel modo in cui Amartya Sen e Martha Nussbaum intendono tutto questo. Ma qui sta il punto più debole dell’analisi di Capelli: di fatto, queste strade, insieme alla politica dell’identità e della diversità, hanno ispirato tanto la pratica quanto la teoria del riformismo di sinistra, liberal e radical, nei venti anni precedenti. E, come testimonia l’ascesa stessa del neo-populismo, sono ad un certo punto fallite o hanno perso di legittimità. Ormai identificate agli occhi di molti cittadini come del tutto organiche a quella globalizzazione neo-liberale che tanto li avrebbe danneggiati. La sfida è dunque sì quella di rilanciare una nuova battaglia politico-culturale nel paese e al livello globale, ma cercando di individuare soluzioni e alternative che vadano oltre i modelli già sperimentati anche nel recente passato. Un lavoro di immaginazione politico-sociologica ancora tutto da fare.