Nella precedente tappa di Arbor maxima abbiamo visitato alcuni dei grandi e vetustissimi larici Larix decidua) delle regioni di nord-ovest (Piemonte, Valle d’Aosta, confine Francia e Liguria). Ora capovolgiamo lo sguardo sulle alpi orientali. Qui, dopo il devastante passaggio del ciclone Vaia, lo scorso ottobre, il paesaggio boschivo ha subito un profondo mutamento.

LO SHOCK INIZIALE NASCEVA dalla constatazione di interi versanti ripiegati a terra, i danni alle abitazioni, le strade interrotte, le visioni apocalittiche di maree a forma di tronchi. A quel momento paralizzante dove la comunità scientifica e forestale, ma in generale, la cittadinanza tutta, si interrogava sul futuro, sul cambiamento climatico, sulle scelte obbligate che la attendono, è seguito il grande lavoro di ridefinizione dei terreni improvvisamente vuoti: la raccolta e il taglio del legname, tutt’ora in atto, e poi la scelta di quali culture impiegare, sul come agire. Poiché il turismo rappresenta una rilevante fonte di sostentamento e sviluppo di province quali Trento, Bolzano e Belluno, pianificare quale investimento fare nei prossimi anni, come riqualificare e sanare le ferite inferte in aree a chiara vocazione naturalistica, come la Val di Fiemme, come la Valsugana, come il Cadore e l’Ampezzano, come gli altopiani di Lavarone, Folgaria e Luserna, non si riduce soltanto a un processo per così dire di “accanimento forestale”, bensì è una scelta strategica in grado di influenzare positivamente o negativamente l’intero comparto turistico. Sappiamo quanto il paesaggio sia fondamentale per attrarre i turisti. Proprio navigando recentemente queste terre i segni del vento sono ancora macroscopici, d’altro canto ci vuole tempo per rimarginare le ferite, e sono necessari denari, impegno, visione.

ORA, CERCARE DI DEFINIRE una geografia di grandi alberi da andare a visitare non è semplice, ne avevo scritto dettagliatamente in opere quali Il bosco è un mondo (Einaudi), Il libro delle foreste scolpite e L’Italia è un giardino (Laterza), Il sole che nessuno vede ed Il sussurro degli alberi (Ediciclo), ma ci vorrebbero settimane di viaggi e nuove alberografie per verificare quel che è rimasto e quel che è stato compromesso. Di certo quell’incantevole oasi di abeti monumentali che circondava l’occhio azzurro del lago di Carezza, in Val d’Ega, è stata ridotta sensibilmente; quando la visitai, più volte, nel corso dell’ultimo decennio, una discesa portava dalla strada che vi passa a fianco e si poteva seguire un sentiero ad anello che sprofondava nelle penombre storiche di questo bosco silenzioso, che si propagava verso le montagne e i campanili rocciosi del Latemar. L’avevo visitato in estate e in inverno, al tramonto e all’alba, e anche sotto la neve appena strapiombata. Le immagini che sono circolate dopo Vaia ne hanno modificato la spettacolarità.

ALTRI LUOGHI MAGICI INVECE pare siano scampati, come la cembreta di Lerosa, sopra Cortina, lassù, fra i 1800 ed i 2000 metri, dove rari esemplari di pino cembro plurisecolari riposano, essendo fra gli alberi più annosi del Veneto. Il vento ha soffiato duro in provincia di Belluno, molte le devastazioni che ho potuto toccare con mano visitando alcune cascate nel Cadore, nonché constatando quanti alberi siano precipitati nella zona di Longarone, dove la grande sequoia di Faè, per fortuna, è rimasta in piedi; una delle nostre più importanti sequoie giganti, messa a dimora oltre un secolo fa, probabilmente quasi un secolo e mezzo fa, già superstite dell’ondata del Vajont. Chi voglia visitare Lerosa deve raggiungere Cortina (due passi magari, un gelato, una visita alla mitica Libreria Sovilla) e salire a Fiames, seguendo le indicazioni per Malga Ra Stua, dove si parcheggia. A piedi, in un’ora, si ascende alla forcella di Lerosa, laddove consiglio vivamente di attendere lo spettacolo mozzafiato del tramonto, seduti ai piedi di radici dure come il marmo, di tronchi scolpiti dal paziente lavorio de tempo. Rientrando non fatevi mancare il frico e altre bontà della cucina locale in malga.A Belluno ha resistito l’Alberone di Casa Buzzati (vicino alla chiesa di San Pellegrino), dove gli eredi ricordano ancora le estati con lo scrittore che si guadagnava riposo e frescura, in fuga da Milano, trascorrendo tempo coi nipoti e la famiglia.

NEL CORTILE DEL B&B CHE NE PORTA il nome cresce questo bel liriodendro o albero dei tulipani, di cui Buzzati scrisse nel suo ultimo elzeviro, poco prima di morire nel gennaio del 1972: «Dietro la vecchia casa di campagna, era già immenso e antico, quando io comparvi piccolo bambino. Ogni tanto, dalle fronde altissime, irraggiungibili, che si perdevano nell’intrico lassù come circonvoluzioni di una nuvola, crollavano già scrosciando rami morti, grandi ciascuno come un albero». Non esistono più invece due patriarchi di grande fama: il più alto abete delle alpi italiane, l’Avez del Prinzipe, a Lavarone, precipitato per un altro fortunale mesi prima di Vaia, tantomeno il faggio di Tiziano Vecellio, a Pieve di Cadore, lungo il sentiero che diparte dalla splendida casa natale (da visitare) del pittore cinquecentesco.

IN TRENTINO, NEL PARCO DELLO STELVIO, sono rimaste le conifere della Scalinata dei larici monumentali della stretta Val di Rabbi, che richiede un paio di ore di ascensione dalle ultime malghe fino al pianoro su, a duemila metri, e da qui inizia un sentiero di settecento gradini (circa) e diversi larici alpini fra i 250 e i 400 anni, con chiome fitte e cortecce a placche rossastre. Nei giorni di maggiore calura il profumo delle resine si spande adorabilmente. Ottimo luogo per meditare, vista anche la presenza di due spumeggianti cascate. Oppure si può salire al rifugio-ristorante (Manghenhütte) del ventosissimo Passo Manghen, in Lagorai, che segna lo «sparti-foreste» fra Valsugana e Val di Fiemme. Da qui parte un sentiero che conduce, dopo ore di cammino, al maggiore pino del nord Italia, per dimensione e per volumetria, il Re Leone, salvato negli anni Settanta da sicura accetta. Certi alberi è quasi inutile tentare di descriverli: magnetici, prepotenti, vasti, emozionanti. E se il complesso montano del Lagorai è stato definito il Tibet d’Italia, allora il Re Leone ne è il Dalai Lama. Ho ribattezzato questo lungo sentiero Grove dei Cirmoli Giganti, poiché se ne incontrano svariati, in diversi punti del cammino. Ma poco importa i nomi che attribuiamo, qui è semmai la natura che ti toglie il fiato che deve lasciare un segno nell’anima di chi vi arriva in pellegrinaggio. D’altronde il filosofo bavarese Ludovico Feuerbach sosteneva che ogni uomo è ciò che mangia.