«È snervante, peggiora ogni giorno di più. Ieri (giovedì, ndr) è venuto a Sheikh Jarrah anche (il deputato dell’estrema destra israeliana) Itamar ben Gvir. Voleva aprire un suo ufficio proprio qui, in mezzo a noi, sotto una tenda montata di fronte alle nostre case, per provocarci. I nostri giovani l’hanno allontanato». Volto stanco, incollata al telefono, Mona al Kurd è stata in questi giorni una delle voci della protesta delle famiglie di Sheikh Jarrah minacciate di essere cacciate via dalle loro case – «sfrattate» come se fossero inquilini morosi, scrive una nota agenzia di stampa italiana – costruite su terreni che prima del 1948 appartenevano ad ebrei. Terreni acquistati dalla compagnia Nahalat Shimon, legata movimento dei coloni, che vuole lo sgombero di 28 case abitate da palestinesi sin dal 1956, per consegnarle a famiglie israeliane desiderose di «redimere» la parte araba di Gerusalemme. «Quattro famiglie rischiano già questo mese di ritrovarsi in strada, siamo nelle mani dei giudici israeliani che sinora hanno fatto solo gli interessi dei coloni» spiega Yacoub Abu Arafeh, un altro portavoce della protesta. Lunedì la Corte Suprema israeliana dovrebbe far conoscere le sue decisioni. «Non riesco ad immaginare di poter perdere la casa, sarebbe la fine della memoria della mia famiglia», aggiunge Mona al Kurd.

«Bushà, Bushà (vergogna, in ebraico, ndr)». A circa 200 metri 300 attivisti israeliani e palestinesi sono riuniti in una protesta congiunta. Non pochi arrivano da Tel Aviv. Alcuni portano al collo la kufieh, altri battono ritmicamente su tamburi, altri ancora alzano cartelli contro l’occupazione israeliana. Presenti anche cinque parlamentari della Knesset. Tre arabi: Sami Abu Shehadeh, Ahmed Tibi e Osama Saadi. E due ebrei: Ofer Cassif e Mossi Raz. Sotto lo sguardo della polizia schierata in assetto antisommossa, i manifestanti si avviano in corteo verso una delle case palestinesi già assegnate a famiglie di coloni. Cassif, deputato comunista, il mese scorso a Sheikh Jarrah è stato percosso dai poliziotti. La sua denuncia ha raccolto scarsa solidarietà in una Knesset dominata dalla destra che guarda con simpatia al progetto dei coloni.

«Dobbiamo lottare per la gente di Sheikh Jarrah e contro ogni forma di fascismo» urla Cassif salito su un muretto tra gli applausi dei dimostranti. «Siamo venuti qui a centinaia, palestinesi ed ebrei» aggiunge il parlamentare «per manifestare contro il furto in atto a Sheikh Jarrah e contro i peggiori razzisti che agiscono sotto la protezione del governo». Il corteo si muove verso la strada sottostante, quella con le quattro case a rischio immediato di sgombero. La polizia lo blocca davanti alle transenne. Poi, di scatto, comincia a spintonare i manifestanti. Gli agenti lanciano granate stordenti. Ma sono reazioni con il guanto di velluto perché tra i manifestanti ci sono israeliani. Ben più pesante è la mano della polizia quando a protestare sono solo palestinesi contro i quali viene impiegata la polizia a cavallo.

Il pomeriggio scivola verso un’altra sera di tensioni e scontri a Sheikh Jarrah. Una ulteriore escalation è alle porte. A scatenarla potrebbe essere la probabile sentenza della Corte suprema favorevole alle rivendicazioni dei coloni. Ma anche la «Giornata di Gerusalemme» con la quale Israele celebra la «riunificazione» della città nel giugno del 1967 con l’occupazione militare della zona araba. In quell’occasione migliaia di israeliani, in maggioranza giovani – sventolando bandiere e diretti al Muro del Pianto – entrano nella città vecchia passando intenzionalmente per la Porta di Damasco, luogo simbolo della Gerusalemme araba, per affermare la sovranità dello Stato ebraico sulla città. Un assaggio di ciò che potrebbe accadere si è visto ieri sera quando, al termine delle preghiere islamiche, sono divampati scontri sulla Spianata della moschea di al Aqsa e alla Porta di Damasco. La polizia ha ferito almeno 50 palestinesi. Il clima è rovente anche in Cisgiordania. Ieri due palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano dopo aver, secondo la versione del portavoce militare, attaccato un posto di blocco davanti a una base militare a Salem (Jenin).