Nicola Chiaromonte. Una biografia, il bel libro di Cesare Panizza uscito da Donzelli due anni fa, e ora, fresco di stampa, un agile pamphlet di Filippo La Porta, Eretico controvoglia (Bompiani, pp. 143, e 11,00), lasciano sperare che gli scritti e la memoria di Nicola Chiaromonte (1905-1972) – al momento tenuti vivi quasi esclusivamente dall’intelligenza eroica della rivista «Una città» (Forlì) – tornino a segnare il nostro paesaggio culturale. Ma meglio non farsi troppe illusioni. Tra il ’92 e il ’95 il Mulino pubblicò una sostanziosa raccolta dei suoi saggi (Il tarlo della coscienza), le sue lezioni sul romanzo (Credere e non credere) e una scelta dai suoi taccuini (Che cosa rimane): tre libri splendidi – l’ultimo in particolare (al cui allestimento contribuirono Paolo Milano e Gustaw Herling) – finiti al macero nel giro di pochi anni, ora letteralmente introvabili (quest’estate un libraio tedesco vendeva in rete una copia di Che cosa rimane a 200 euro e passa: non la vedo più, qualcuno deve averli sborsati).
Edito assai bene da Samantha Novello (una studiosa fiorentina che – come Chiaromonte – sembra scrivere con lo stesso agio in italiano, inglese e francese), il carteggio di Chiaromonte con Albert Camus (Correspondance 1945-1959, Gallimard, pp. 235, € 22,00) conferma la finezza e l’umanità, lo scrupolo, i rovelli, la passione mai gridata dell’intellettuale lucano; e riserva più di una sorpresa. Ignoravo, ad esempio, che Camus avesse scoperto la poi subito amatissima Simone Weil grazie a Chiaromonte, che già nel ’45 ne aveva fatto tradurre alcuni scritti su «politics», la rivista di Dwight McDonald. E neppure nella biografia di Panizza si parla, mi sembra, della breve relazione che Chiaromonte ebbe nel ’52 con Patricia Blake, antica fiamma newyorkese dello stesso Camus. Chiaromonte, a quanto pare, abbandonò Parigi per una Roma che non amava – e senza alcuna illusione di poter «redevenir “italien”» – proprio per distaccarsi dalla giovane donna («la femme rêvée à dix-huit ans»), salvaguardando così il suo allora stanco matrimonio con Miriam Rosenthal.
Le lettere in cui si accenna a Patricia Blake costituiscono il centro emotivo del carteggio. E questo non tanto per l’intensità delle reciproche confessioni di debolezza – simmetriche, ma così ‘sbilanciate’ se si pensa che Camus visse comunque gli ultimi dodici anni della sua vita in una situazione di quasi bigamia (le mille e trecento pagine della sua Correspondance 1944-1960 con Maria Casarès sono uno dei grandi epistolari d’amore del Novecento, come solo i francesi, anzi solo Mitterand s’è potuto permettere!). Quanto piuttosto perché offrono a entrambi l’occasione di rievocare il loro primo incontro, nel ’41, sulla spiaggia di Algeri, Chiaromonte in fuga dalla Francia occupata, Camus giovane scrittore e uomo di teatro. «Eravate in compagnia di amici – abbiamo pranzato assieme», ricorda Chiaromonte, 31 marzo 1954. «M’avete tutti accolto come uno di voi. Per me era, fra l’altro, il primo contatto col mare, dopo sette anni di Parigi e di terra ferma. Poi voi m’avete accolto nella vostra casa a Orano e un pomeriggio in bicicletta siamo andati a fare il bagno su una spiaggia deserta. Non conoscevo lo scrittore, allora, conoscevo solo Albert Camus e sua moglie, così toccante. Ed è restato così anche dopo: un legame diretto e semplice – nato da un rapporto umano fra i belli e veri: l’ospitalità». E Camus, 5 maggio: «Sì, mi ricordo i nostri incontri in Africa. L’amicizia è una cosa strana. Il giorno che siete partito per il Marocco, non sapevo neanche se ci saremmo rivisti e le vicende della guerra rendevano improbabile che ci saremmo ritrovati. Eppure, mi “sentivo certo” con voi, con il futuro che ci era comune. V’avevo riconosciuto ed eravate tra la dozzina d’esseri umani coi quali ho vissuto sempre, anche lontano da loro».
In filigrana alla corrispondenza – abbastanza regolare fra il ’45 e il ’48 (l’anno in cui Chiaromonte da New York si trasferì a Parigi), poi ancora dal ’53 fino alla morte improvvisa di Camus (4 gennaio 1960) – scorrono quasi tutta la carriera folgorante di Camus, fra impegno civile e riflessione filosofica (o meglio: morale), teatro e romanzo, e le attività, meno eclatanti ma altrettanto fitte, di Chiaromonte: le sue collaborazioni come critico teatrale al «Mondo» di Pannunzio e la fondazione (con Ignazio Silone) di «Tempo presente», sul cui primo numero (aprile 1956) Camus pubblica in anteprima, tradotto da Natalia Ginzburg, uno dei suoi racconti più belli, La Femme adultère, quindi raccolto nell’Exil et le royaume (1957). In effetti, per tutti gli anni cinquanta, pur non firmandone alcuna traduzione (semmai riaggiustando quelle di altri), Chiaromonte appare come il punto di riferimento, e quasi la ‘voce’, di Camus in Italia. Un ruolo a cui non venne mai meno anche in seguito, tanto che l’edizione Bompiani delle Opere (1968) dello scrittore francese è introdotta da un saggio dove, fin dal titolo, Albert Camus e la giusta misura, Chiaromonte sembra tracciare anche un autoritratto: se solo si pensa alla sua prima reazione alla lettura dell’Homme révolté (14 dicembre 1951: «vous esquissez une définition de la “mesure” – et il n’y a pas de tentative avec laquelle je puis sympathiser plus complètement») e a quante pagine dei suoi stessi taccuini sono dedicate a considerazioni sulla ‘misura’, il ‘limite’. (Che nell’88 la Bompiani abbia pubblicato un’edizione diversa delle Opere di Camus, con introduzione di Roger Grenier, dipenderà magari solo da una questione di diritti, ma resta una piccola allegoria della pertinace elusività di Chiaromonte, il cui nome sparisce del tutto, anche dalla bibliografa).
Nelle pagine del carteggio sfilano personaggi sempre troppo nell’ombra – come il ‘maestro’ di Chiaromonte, Andrea Caffi, «un uomo difficile e pieno di pudore, che ha scelto da tempo una vita d’oscurità e penuria piuttosto di venire a patti con un mondo a cui si sente straniero» – o troppo sotto i riflettori: Sartre ad esempio, «quest’uomo straordinario» che da tempo concepisce «il ruolo di caposcuola come una forma di gangsterismo (intellettuale)», come scrive Chiaromonte il 20 settembre 1952, l’anno della pubblica rottura fra Sarte e Camus sulla questione comunista (ed è un bel segno della resistenza di Camus a qualsivoglia ideologia – della sua ‘misura’, insomma – che, nell’informare Chiaromonte del rifiuto di Gallimard di pubblicare Un mondo a parte, il terribile libro di Herling sui Gulag, su cui Camus stesso aveva scritto «un rapport très chaleureux», specificasse, non senza ironia: «Motivo: l’argomento. In effetti, hanno rifiutato contemporaneamente un libro eccellente sui campi nazisti. L’editoria francese è impressionabile», 12 maggio 1956).
In queste lettere i tocchi di humour sono rari, ma non mancano: come quando i due amici si figurano Meyer Schapiro e consorte («ce couple érudit»), la sera, al lume di candela, dedicarsi con la massima serietà alla lettura ad alta voce del Deuxième Sexe della Beauvoir: «ce monument», commenta Camus: «Drôle de Bible!». E segnalo, fra molte, una comparsata di Landolfi, «al momento lo scrittore più interessante in Italia», ammirato per «una certa rottura dei “vincoli”… del resto sapete bene di cosa parlo… un certo libero spreco di sé…», scrive Chiaromonte, 3 luglio ’54, in piena crisi coniugale…
A proposito di crisi d’altro genere (e per concludere). È notevole, dopo più di un anno di silenzio, la lettera del 18 novembre 1958, dove Camus, ancora frastornato dall’assegnazione del Nobel, confessa di trovarsi a una difficile «svolta»: «non posso più scrivere come prima, semplicemente continuare le mia opera. Ci ho provato. Ma invano. Ho bisogno di una sorta di rivoluzione interiore, che attendo, che forse si verificherà, e se non dovesse verificarsi, mi tacerò. In ogni caso, parlare del negativo, della contraddizione, del problematico in sé, non mi interessa più. Se non posso arrivare a parlare molto semplicemente di cose che so, che sappiamo, esser evidenti e vere, il resto è inutile». Ed è bellissima l’appassionata risposta di Chiaromonte, che – in uno «sfogo à la russe (Sì, è vero, sono un po’ russo – o lo sono diventato dal giorno in cui, adolescente, ho letto Tolstoj per la prima volta)» – invita l’amico ad accettare il suo «bisogno di silenzio, di riposo, di distacco libero rispetto alla letteratura, e fin’anche alla personalità letteraria che vi siete così degnamente conquistato»; e, per sostenerlo nella sua «lotta» inevitabilmente «solitaria», gli addita Boris Pasternak come «esempio di un uomo che ha lottato vittoriosamente contro “lo spirito di vendetta”». «Questa crisi che state attraversando è benefica, lo sento. E sento che ne uscirete “disteso” [épanoui]», lo rassicura. E sarebbe ingeneroso esser sordi all’eco di queste parole di Chiaromonte, quando undici mesi dopo, nella sua ultima lettera all’amico, Camus, sempre di corsa tra una prova di teatro e l’altra, «E ora ritorno al mio libro» – gli scriveva – «che quest’anno ha fatto progressi niente male» (19 novembre 1959). Questo «mio libro» è, naturalmente, Le premier homme, l’emozionante frammento autobiografico dove Camus «molto semplicemente» (così di getto…) riesce davvero a parlare «di cose che so, che sappiamo, esser evidenti e vere»: non ebbe il tempo di terminarlo – né Chiaromonte avrebbe potuto leggerlo (fu pubblicato solo nel ’94) – ma sarebbe stato probabilmente la sua opera più matura, il suo romanzo più «disteso».