La pandemia sta evidenziando problemi epocali e sta facendo crescere orientamenti che attualmente sono privi di una rappresentanza politica.

Come dimostrano ricerche e sondaggi recenti, è cresciuta l’evidenza e la consapevolezza che lo Stato debba garantire servizi pubblici universalistici in modo efficiente a tutta la popolazione.

È cresciuta la consapevolezza del ruolo e della capacità d’intervento che lo Stato deve avere in economia, anche elaborando politiche industriali che creino e/o redistribuiscano il lavoro secondo una progettualità di lungo periodo.

È cresciuta la percezione di quanto siano insostenibili le disuguaglianze sociali.

È cresciuta l’evidenza che il lavoro subordinato è la forza produttiva più penalizzata dalle politiche e dai processi economici degli ultimi decenni.

Ed è infine cresciuta l’evidenza di quanto sia epocale e incida sulle nostre vite la crisi climatica e ambientale. Evidenza che è in parte presente nel discorso politico (definita come «transizione green») ma in modo retorico, senza che siano visibili progettualità, politiche e strumenti chiari.

Tutte queste evidenze e consapevolezze però non sono rappresentate politicamente.

C’è quindi un vuoto di rappresentanza su questioni fondamentali che toccano la maggioranza delle persone, (per approfondirle, dal 16 al 18 aprile ci sarà un’iniziativa intitolata «La lezione del 2020. Spunti per il futuro», www.lalezionedel2020.it).

Contemporaneamente, il sistema politico è avvitato in una crisi di cui è difficile vedere l’uscita. Le forze politiche della destra godono di buona salute. Nell’altro campo, però, le difficoltà sono enormi e forse sottovalutate.

Il Pd di Zingaretti aveva suscitato speranze in ampia parte della sinistra. Sembrava che a partire dal superamento dell’esperienza renziana potesse essere costruito un «campo largo e progressista». Il fallimento della segreteria Zingaretti ha dimostrato che quel partito è strutturalmente inadeguato a un compito di quel tipo.

Dimostrazione che difficilmente potrà essere smentita dal neosegretario, essendo Enrico Letta programmaticamente forse ancora più vago di Zingaretti, altrettanto incapace di comunicare idee forti che incidano sulle fratture sociali non rappresentate, e forse personalmente più adatto a ruoli istituzionali che di leadership politica.

Norma Rangeri ha definito il Pd un «partito governativo di centro». Forse lo si può dire anche del nascente Movimento 5 Stelle di Conte.

Prima come premier, ora come «leader in pectore», Conte adotta una postura politica difficilmente decifrabile. Si presenta al contempo come vicino all’impresa e attento al sociale, favorevole a un rafforzamento del ruolo dello Stato ma incline a limitarlo al solo sostegno dell’impresa economica privata. Conte ha goduto e gode di un consenso dovuto al fatto di ricoprire la massima carica politica in un periodo di emergenza, riuscendo ad apparire «empatico» e rassicurante. Non è affatto detto però che quel consenso sia traducibile e conservabile nel suo nuovo ruolo di leader politico.

Di più, non è detto che il suo consenso personale basti a nascondere o limitare la crisi strutturale del M5S, la sua trasformazione in partito tradizionale privo di un discorso politico riconoscibile, e la sua imminente probabile scissione.

Vanno aggiunti due fattori.

La sinistra radicale è da tempo costretta all’irrilevanza elettorale, e una parte consistente di elettorato, di attivisti e di militanti già attivi o potenzialmente attivi sono privi di una «patria» politica.

Visto questo insieme di fattori – l’insieme di fratture epocali prive di rappresentanza politica e di crisi di attori politici centrali – può essere il tempo di una proposta politica nuova e ambiziosa. Ambiziosa, che non punti a raggiungere un quorum o eleggere sparute pattuglie parlamentari, ma ad essere competitiva con il Partito democratico e puntare a sostituirlo, nell’immaginario collettivo, nel ruolo della «sinistra» del Paese e di forza su cui è razionale investire per battere la destra. E nuova. Cioè dotata di un’identità, ma non identitaria.

Autonoma, ma non settaria. Che elabori discorsi, pratiche e forme organizzative orientati a raggiungere la maggioranza della società, non minoranze già ideologizzate. E che, sulla base delle fratture sociali non rappresentate dalla politica esistente, individui tre-quattro battaglie chiave su cui rendersi riconoscibile e provare a unificare mondi, interessi e aspirazioni frammentati.

È possibile?

In altri paesi, forze politiche con queste caratteristiche sono nate prevalentemente in presenza di alcune condizioni: la contemporaneità di una crisi politica e di una crisi economica; una forte mobilitazione sociale capace di modificare il senso comune; la presenza di leadership riconoscibili.

In Italia non tutte queste condizioni sono presenti. Ma alcune lo sono. Su altre si può, forse, lavorare.