Dell’accordo faticosamente raggiunto dagli stati dell’Unione europea all’alba del 20 luglio dovremo continuare ad occuparci a lungo. Gli accordi, si sa, delimitano i confini dello spazio di gioco ma non mettono fine alla partita. Né quella che si gioca all’interno delle “squadre nazionali”, né quella che riguarda l’insieme dell’Unione. Senza voler guastare la festa della “vittoria”, nell’attesa delle sorprese che non tarderanno a manifestarsi (tra parlamenti, corti costituzionali e istituzioni finanziarie) converrà prendere in esame alcuni dei nodi politici a cui nessuno deve illudersi di potersi sottrarre.

Le condizionalità costituiscono un elemento imprescindibile di ogni programma europeo. Il termine stesso di “programma” ne è l’espressione. Ed è un bene che sia così. A meno di nutrire una fede cieca nell’ arbitrio benefico dei rispettivi governi nazionali come prescrive la cattiva utopia dei cosiddetti sovranisti. Il quadro delineato dall’accordo di Bruxelles si mantiene come è naturale, su linee del tutto generiche. Ma nelle articolazioni dei programmi i punti di vista tenderanno inevitabilmente a divergere. Vi è intanto un primo livello sul quale le istituzioni europee e i rapporti di forza che le attraversano pianteranno i loro paletti e assegneranno i famigerati “compiti a casa”.

Vedremo allora in concreto quanto larga sia la crepa aperta dalla crisi nel granitico catechismo neoliberale che abbiamo visto all’opera ai danni della Grecia. Fino a che punto la rendita finanziaria potrà essere messa a freno, posti dei limiti ai surplus commerciali e al dumping fiscale, riconosciute le ragioni di una società che non coincide con il processo di accumulazione del capitale ed è afflitta da mostruose diseguaglianze. L’idea che “i soldi ci sono” e ognuno interpreterà a suo piacimento i “grandi obiettivi” di Next Generation è alquanto fuori dal mondo, se non del tutto truffaldina. I nazionalisti non mancheranno di ricondurre le controversie che immancabilmente si apriranno a un braccio di ferro tra il proprio stato nazionale e l’Unione europea o blocchi di altri stati “reprobi”.

Così ogni sacrificio o semplice trascuranza di bisogni sociali diffusi porterà acqua al mulino delle ideologie antieuropeiste e delle loro tristi espressioni politiche. I media e l’opinione pubblica, per tutto il corso del tormentato vertice dell’Unione sono stati a guardare facendo il tifo per il proprio “campione”. Una stucchevole messa in scena da Orazi e Curiazi. Ma se la questione delle “condizionalità” venisse interamente affidata ai governanti e alle rappresentanze parlamentari senza una mobilitazione diretta delle forze sociali su scala europea intorno alla governance delle risorse, l’Europa tornerebbe pienamente ostaggio delle sovranità nazionali, delle gerarchie e dei poteri che le condizionano. Le difficoltà sono enormi, ma per un movimento continentale che forzi verso il superamento dell’attuale modello economico e politico europeo qualche varco si è aperto.

Non saranno certo le classi dirigenti al potere, che vi vedrebbero un restringimento delle proprie prerogative, a compiere il benché minimo passo in direzione di un assetto di stampo maggiormente federale. Né le lobbys che assediano Bruxelles a mollare di un millimetro sui dogmi neoliberali che soffocano l’Unione.

C’è poi la partita che si gioca all’interno dei confini nazionali. Laddove al posto dell’Olanda di Mark Rutte ci troveremo la Confindustria di Bonomi e il liberalismo presuntuoso e infantile di Matteo Renzi. I secondi non certo migliori del primo. Qui non si tratta di conquistare risorse “per l’Italia”, ma per chi, in Italia, ne è stato progressivamente privato dalle politiche neoliberali, dalla depredazione del comune e dalla “modernizzazione” dei dispositivi di sfruttamento. Tra questi modernizzatori e i poteri dominanti in Europa, dispensatori di ricette di “sviluppo” a proprio uso e consumo, si svolge un evidente gioco di sponda.

Che le ingenti somme messe in campo dalla Ue non potranno che rendere ancora più frenetico. Di contro uno stesso gioco di sponda dovrebbe attivarsi tra i movimenti sociali, l’opinione pubblica democratica europea e le forze politiche che, non solo in forma vacuamente retorica, si sono convinte a procedere verso un cambio di rotta.

Ai tempi della crisi greca la governance europea impose ad Atene condizioni infernali, ma non mosse un passo né pronunciò parola contro i veri responsabili della bancarotta ellenica, arrichitisi a dismisura a spese del paese e della sua popolazione. Questa volta il disastro è ben più vasto e generale. Per continuare a far soldi si deve spendere , e strangolare gli indebitati finirebbe col soffocare anche le economie dei creditori. Ma pensare che la pandemia abbia prodotto una qualche forma di redenzione tra gli armigeri neoliberali rappresenterebbe una imperdonabile ingenuità.

Conosciamo a sufficienza le forze che ci governano ed è un bene che sottostiano a qualche condizione (purtroppo gli autocrati dei paesi dell’est continueranno a comprare consensi con i solidi europei senza dover render conto a nessuno del regime che vanno costruendo). E tuttavia resta il compito decisivo, che solo i movimenti possono svolgere, di condizionare queste “condizionalità” e la loro articolazione nei diversi contesti nazionali.