Le strade di Betlemme sono deserte, saracinesche abbassate in ogni quartiere. Pochissime persone camminano per le vie della città. Gli unici negozi aperti sono farmacie e panifici. Betlemme, come Hebron, Nablus, Ramallah, in Cisgiordania, commemora i morti nel massacro di Shajaiye. Dall’altra parte del muro, i palestinesi di Gerusalemme e delle città israeliane fanno lo stesso. Tutto chiuso, è lutto nazionale. Da Nazareth a Sakhnin, da Umm al Fahem alle comunità arabe più piccole, tutto il popolo palestinese ieri era unito nel dolore per una strage disumana.

Era da tempo che un’azione comune non riusciva ad unire le varie comunità palestinesi, divise da un muro e da quattro diverse carte d’identità, strumento che Israele usa da sei decenni per spezzare l’identità comune palestinese. Ieri l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina è riuscita a rimettere tutti sotto lo stesso ombrello, capacità molto affievolita negli ultimi anni: la chiamata allo sciopero generale in tutta la Palestina storica è stata ripresa da comuni, ministeri, sindacati, banche, università, associazioni di base, mentre l’Autorità Palestinese dichiarava tre giorni di lutto nazionale. Un’azione che giunge dopo le dichiarazioni di Hanan Ashrawi, membro dell’ufficio politico dell’Olp: «Si è trattato di un massacro deliberato. Crimini di guerra sono stati commessi ogni giorno, ma adesso siamo di fronte a un bombardamento deliberato di intere aree residenziali. Non riesco a capire come il mondo possa ancora parlare di autodifesa».

Il massacro di Shajaiye ha profondamente colpito l’intero popolo palestinese. Lo sciopero generale segue alle numerose manifestazioni in corso ormai ovunque, non solo in Cisgiordania. Haifa è da giorni teatro di proteste e scontri con la polizia: tra venerdì e sabato almeno 35 persone sono state arrestate. Manifestazioni anche a Jaffa e Tel Aviv: ieri l’attivista israeliano Ronnie Barkan, membro della campagna BDS per il boicottaggio di Israele, ci ha annunciato una grande manifestazione per ieri sera a Jaffa. «Palestinesi e israeliani di associazioni e partiti si ritroveranno per sostenere lo sciopero e chiedere la fine del massacro – spiega Ronnie al manifesto – Abbiamo già ricevuto minacce da parte di gruppi di estrema destra, che hanno promesso di venire ad aggredirci. Lo hanno fatto la scorsa settimana a Tel Aviv, ma stavolta sarà peggio perché saremo tanti».

In Cisgiordania, la notizia del massacro di Shajaiye ha portato in piazza molti più manifestanti del solito, bilancio finale: oltre 50 feriti. Domenica sera a Betlemme l’esercito ha risposto con i cannoni ad acqua, mentre a Nablus è stata l’Anp a disperdere la folla inviando la polizia a sparare in aria. Proteste anche a Gerusalemme Est, a Shuafat e Issawiya, e nei campi profughi di Al Jalazon, Al Arroub e Al Fajjar in Cisgiordania, nelle città di Qalqiliya e Tulkarem.

Non sono pochi quelli che sperano che l’attacco contro Gaza possa cementare i milioni di palestinesi in tutto il territorio. In Cisgiordania la speranza è unica: se si muove il ’48 (l’attuale Stato di Israele), il resto seguirà a ruota e Tel Aviv dovrà vedersela dall’interno. I mal di pancia dentro le stanze dei bottoni cominciano già a farsi sentire: ieri uno stizzito Lieberman, ministro degli Esteri, ha fatto appello ai cittadini israeliani perché boicottino le attività commerciali palestinesi che hanno aderito allo sciopero generale. «Non acquistate più nei negozi degli arabi che partecipano allo sciopero organizzato dall’Alto Comitato Arabo per il Monitoraggio [associazione che ha aderito alla chiamata dell’Olp, ndr ] in empatia con Gaza».

Oggi il popolo palestinese si aspetta una risposta forte da parte dell’Olp, ancora troppo schiava di Fatah e Anp per promuovere azioni efficaci: la stessa Ashrawi ha allontanato l’idea di un’adesione alla Corte Penale dell’Aja, preferendo «che sia la comunità internazionale a muoversi». Nonostante la palese crisi, il governo di Ramallah resta bloccato, limitandosi a condannare l’offensiva israeliana e a discutere con l’Egitto, chiaro ostacolo alle condizioni poste da Hamas per giungere alla tregua. Alla fine dell’operazione militare in corso, come accadde nel 2012, il vero sconfitto sarà di nuovo il presidente Abbas, che sta già assistendo ad un calo di consensi senza precedenti a favore del movimento islamista che dalla resistenza espressa contro l’occupante otterrà nuova legittimazione. L’incapacità di costruire una leadership forte e unitaria, il servilismo verso le politiche israeliane e statunitensi, il fallimento del cessate il fuoco proposto insieme al Cairo, l’insistenza nel presentarsi nei panni da mediatore invece che in quelli da leader sono lo specchio della rovina di Abbas e dell’Anp post-Arafat.