L’emergenza climatica è ormai certificata da una messe di dati su cui prospera anche una crescente economia «green» e contestata solo da pochi negazionisti. Eppure, lo stato della nostra atmosfera non migliora affatto. Com’è possibile che il discorso pubblico sia egemonizzato dai «buoni» – scienziati, ambientalisti, imprenditori verdi – e tutto proceda indisturbato verso l’Apocalisse? SECONDO IL BELGA Daniel Tanuro, agronomo e teorico dell’ecosocialismo e autore di «È troppo tardi per essere pessimisti. Come fermare la catastrofe ecologica imminente» (Alegre edizioni, 2020, traduzione di Riccardo Antoniucci), la colpa è dei buoni stessi, incapaci di affiancare alla pur lodevole iniziativa ambientalista una serrata critica politica che investa tutta la società e non solo il suo impatto sull’ambiente. «International geosphere-biosphere programme» (Igbp), «Intergovernmental Panel on Climate Change» (Ipcc), “Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services” (Ipbes) sono altrettanti organismi internazionali che ci hanno fornito rapporti dettagliati sullo stato del pianeta, sul cambiamento climatico e sul declino della biodiversità, e in questo sono istituzioni stimate e autorevoli. Ma al momento di fornire strategie risolutive non hanno mai saputo mettere in discussione la vera causa del disastro ambientale. «Dobbiamo batterci per l’introduzione della nozione di Capitalocene al posti di quella di Antropocene?» si chiede Tanuro in riferimento al passaggio di era descritto dall’Igbp. «Se i geologi sono coerenti con i loro criteri geologici, il passaggio non dovrebbe essere avvenuto fino alla seconda metà del ventesimo secolo, per cui non è la specie umana a esserne responsabile ma il modo capitalistico con cui produce la sua esistenza sociale».

ANCHE LE STRATEGIE istituzionali di lotta al cambiamento climatico, nonostante le buone intenzioni, rischiano di aggravare l’ingiustizia sociale che lo alimenta. Le annuali Conferenze delle Parti (Cop) organizzate dall’Onu per pianificare la lotta al riscaldamento climatico lo dimostrano. Fissare un sistema mondiale per contabilizzare le emissioni di carbonio metterebbe sullo stesso piano una tonnellata di anidride carbonica emessa da un paese ricco e quella emessa da un paese povero. «Il principio della responsabilità differenziale, elemento essenziale della giustizia climatica, è da sempre nel mirino dei paesi ricchi», scrive Tanuro, ricordando come questo punto sia stato abbandonato dopo la fallimentare Cop 15 di Copenhagen del 2009. Così come è destinata al fallimento ogni «tecno- utopia» basata su tecnologie che assorbano emissioni di carbonio – evidentemente ritenute inarrestabili – invece che «produrre meno, trasportare meno e condividere di più».

L’ANALISI DI TANURO non risparmia gli scienziati dell’Ipcc, pur destinatari di un premio Nobel per la pace. Invece, anche i loro rapporti periodici in cui si consigliano le strategie di «adattamento » e «mitigazione» nei confronti del cambiamento climatico sarebbero permeati di ideologia neoliberista. Nelle pagine sulla «mitigazione», gli scienziati dell’Ipcc affermano esplicitamente che «i modelli assumono tipicamente mercati pienamente funzionanti e comportamenti di mercato competitivi». Questo, secondo l’autore, equivale a «escludere la pianificazione, il settore pubblico e tutti gli ambiti dell’associazionismo, del sindacalismo, dei movimenti delle donne, delle comunità e delle popolazioni indigene» dalle possibili vie di uscita dalla crisi climatica. Ma non si può separare la lotta per la biodiversità da quella dei contadini e dei Sem Terra contro l’agrobusiness.

LA STRADA INDICATA da Tanuro per uscire dalla crisi si allontana dall’ambientalismo mainstream e vira verso un’ecologia «marxista». Ma non è una ricetta pronta. Si tratta piuttosto di un «cantiere incompiuto fitto di tensioni e contraddizioni», a cui Tanuro aggiunge diversi mattoni nel capitolo finale del libro delineando la sua personale proposta ecosocialista.