Un tempo – non così tanto tempo fa – si dipingeva con la stessa disinvoltura con cui ora si scattano le foto con l’Iphone. In viaggio, invece della macchina fotografica (ormai obsoleta anch’essa) ci si portava un album da disegno o la tavolozza.
Io alle rovine, anzi alla rovina di Corinto, mi son fatto guidare così, all’antica. Da una acquarello che Enrico Thorn – l’amico pittore nella cui bella casa di Nauplia trascorro, ormai da qualche anno, diverse settimane l’estate – avrà realizzato in pochi istanti, le linee verticali grigie, verdi, gialle come tanti scatti appena troppo delicati – indugiati – per esser automatici, lievemente decentrato a destra, il bianco del foglio tutt’attorno, appena qualche alone e i segni di un paio di puntine. In effetti, lo stesso non-colore, quel foglio, del cielo del tardo pomeriggio di settembre, già fuori stagione, in cui ci siamo andati.
«Non è da tutti approdare a Corinto», recita l’antica massima: vuoi perché l’approdo nel porto non è facile né sicuro; vuoi, più maliziosamente, a causa dei prezzi folli delle sue nobili cortigiane («Non compro un pentimento di mille dracme», avrebbe dichiarato Demostene, declinando le grazie della famosa Laide). E anche Enrico e io abbiamo fatto una certa fatica ad arrivarci, in auto da Nauplia, imboccando più volte la strada per la città moderna invece di quella per gli scavi. La realtà è che in Grecia, almeno nel Peloponneso, sembra che facciano apposta a non mettere cartelli indicatori. È una forma di scontrosa assertività, va rispettata. E poi Enrico, che è più greco dei greci e un po’ se ne compiace, si ostinava a interpellare quel genere di vecchi contadini che, giustamente, con le pietre antiche rafforzerebbero il terrazzo della loro vite o il muro dell’ovile.
Lucio Mummio barbaro di Roma
La rovina di Corinto è il maestoso tempio dorico di Apollo (550 a.C. circa), l’unica costruzione antica che Lucio Mummio – «un Barbare de Rome» come lo bolla sdegnoso Chateaubriand – lasciò relativamente intatta quando, nel 146 a.C., rase al suolo la città. Ne restano sette colonne monolitiche, cinque delle quali con relativa trabeazione, una soltanto priva di capitello. A fine Seicento, quando George Wheler e Jacques Spon le misurarono, attribuendole al tempio di Diana di Efeso, erano dodici; e a inizio Settecento William Martin Leake vi avrebbe riconosciuto, sempre erroneamente, il tempio di Atena Chalinitis. Il fatto è che quei pionieri dell’archeologia avevano mandato a memoria la Guida di Pausiana, dove il tempio di Apollo è menzionato solo en passant. Gli austeri commentatori dell’edizione Valla-Mondadori (1986) ne prendono atto e, a loro volta, passano oltre; mentre il più affabile Peter Levi (1931-2000), poeta e viaggiatore, compagno di Bruce Chatwin in Afghanistan, che tradusse e annotò Pausania per la Penguin (1971), non nasconde la sua meraviglia e ci spiega che, nel secondo secolo, quando Pausania esplorò la città, il tempio sarà stato assai meno notevole, «ricoperto da un tetto e soffocato di stucchi romani».
Molto più curioso che Chateaubriand, nell’Itinéraire de Paris à Jérusalem (1811), affermi di non averle neanche viste, queste magnifiche colonne, anzi avanzi il sospetto che «les Anglais en ont emporté les dernier débris»: tanto che c’è chi ha suggerito che il romantico René non abbia, in realtà, mai messo piede a Corinto. Nel 1937 Herbert List vi scattò alcune fotografie che non ci si stanca di contemplare. Chissà se per realizzare quella in cui il tempio di Apollo si staglia minuto, a sinistra sullo sfondo, mentre una statua acefala lo «guarda» in primo piano, quel torso drappeggiato è stato disposto ad arte o era davvero ancora lì, forse solo adagiato tra gli arbusti? (Come sono ancora a terra, come dimenticati da quando li notò Jacques Foucherot a fine Settecento, gli unici due capitelli corinzi che è dato vedere nel parco archeologico di Corinto…).
Un cipresso svettante
In un’altra foto di List il tempio è, invece, nudo in primo piano, appena spostato sulla destra, come nell’acquarello di Enrico Thorn. È quasi esattamente la stessa «inquadratura». Ma trent’anni fa, quando Enrico la dipinse, la colonna più a sinistra era accompagnata per tutta la sua altezza e oltre da un cipresso svettante.
Del «surrealismo vegetale» di Enrico, Giovanni Testori ha scritto da par suo («pare che, una volta tanto, la crudeltà mostri di sapersi trasformare, per amore di bellezza vegetale e di conseguente bellezza figurale, in una strana e distensiva dolcezza») nella presentazione di una mostra alla Galleria Gulliver di Milano, 1970. Ma non c’è dubbio che quell’albero fosse, allora, ben reale: avrà cominciato a spuntare, direi, non tanto dopo gli scatti di Herbert List… Ora è stato tagliato, e in effetti gran parte della nostra visita (forse non in termini di tempo, ma di esercizio intellettuale sì) è servita a prenderne cognizione: in compenso – la poesia delle rovine, si sa, è fatta d’incessanti scambi fra «natura» e «cultura» – la vegetazione si è molto infoltita proprio nel punto da cui Enrico aveva dipinto, e adesso da lì, anche inerpicandosi, il tempio di Apollo lo si intravede appena.
Né v’è traccia, nell’acquarello (a differenza che nella foto di List), delle imponenti fortificazioni di Acrocorinto, l’acropoli più impressionante di tutta la Grecia continentale. È da lassù che sgorga la fonte Pirene, alle cui acque, secondo il mito, si sarebbe abbeverato Pegaso prima di spiccare il volo verso l’Elicona; e ad Acrocorinto sorgeva il tempio di Afrodite, con le sue mille prostitute sacre. «La tua cittadella / invita tutta la Grecia», concluse Walter Savage Landor la sua ode To Corinth (pubblicata nel 1824, l’anno che Byron moriva a Missolungi): «affìdati dunque alla tua forza, e impavida / abbassa lo sguardo alla pianura, mentre re, aggiogati l’uno all’altro, / corrono urlando, dove i loro mandriani li pungolano; / l’istinto in essi è affilato, e autentico il terrore, – / annusano la superficie dove appoggeranno il loro collo».
Shelley, mai stato in Grecia
Difficile citare versi tanto foschi, e più rappresentativi di quelle contraddizioni che, dalla guerra d’indipendenza, si sono forse trascinate fino a oggi, e fanno della Grecia la nazione più intrattabilmente europea d’Europa («Noi siamo tutti Greci», scriveva Shelley, mai stato in Grecia, nel 1821: «Le nostre leggi, la nostra letteratura, la nostra religione, le nostre arti hanno le loro radici in Grecia» – ed Enrico Thorn, che in Morea ci vive, scuote la testa: «No! no! no!»).
Vista dal basso, Acrocorinto è puro, torvo medioevo. Risalendo verso Nauplia, incombe per chilometri, tornante dopo tornante. È stata una fortezza del principato di Acaia, poi dei veneziani e poi dei turchi. Alla fine della quarta crociata (1202-’04), Leo Sgouros, signore delle regioni attorno, vi difese la propria feroce libertà per quasi cinque anni: finché stremato dall’interminabile assedio, s’armò di tutto punto e, spronato il suo cavallo, si lanciò al galoppo giù dalle mura. La Chiesa aveva più d’una ragione per volerlo morto: Sgouros aveva messo in prigione il vescovo di Nauplia, e riservato a quello di Corinto il trattamento ben peggiore d’invitarlo a pranzo, fargli cavare gli occhi e precipitarlo dall’Acrocorinto. Ma quel suo equestre suicidio è tanto malinconico, e così spettacolare – sembra di vederlo ancora, a mezz’aria sul destriero – che tutto il resto quasi si dimentica: un attimo si staglia contro il cielo, minuscolo sopra il monte immenso che l’inghiotte.