Il nome di Mauritius, che proviene da un omaggio degli Olandesi al loro principe Maurizio di Nassau, quando l’isola – distante meno di un migliaio di chilometri dal Madagascar aveva già conosciuto almeno la dominazione portoghese – evoca in tutto il mondo benestante una esotica località di vacanze; ma per chi vi è nato o, peggio vi fu deportato da altri lidi (africani, in particolare), rimanda a ben altro. Conquistata dai Francesi all’inizio del 1700, fu chiamata Île de France, per tornare al precedente nome sotto gli Inglesi, dal 1810 fino alla indipendenza, nel 1968. Vi si parlano dunque l’inglese, il francese ma soprattutto un idioma creolo-mauriziano, e queste non sono informazioni superflue per comprendere l’ultimo romanzo di Jean-Marie Gustave Le Clézio, Alma (traduzione di Maurizia Balmelli, Rizzoli, pp. 287, € 20,00).

Il protagonista – una sorta di alter ego di Le Clézio – racconta a capitoli alterni il suo viaggio nell’isola e quel che gli capita mentre va in cerca di notizie su quanto resta della propria famiglia di origine, mentre un’altra voce lo affianca, quella di un suo lontano e molto infelice parente, le cui «avventure» vengono variamente immaginate e, di conseguenza, raccontate.

Altri personaggi si aggiungono, sulla cui natura di invenzione o di corrispondenza al reale non metterebbe conto interrogarsi, se non fosse l’autore stesso a motivarci, richiedendo al lettore un’attenzione veristica alle sorti dei personaggi. L’epilogo, che funziona anche come una sorta di ricompensa al lettore paziente, ricostruisce alcune vicende, consentendo l’individuazione di nessi che dalle (non poche) pagine precedenti era stato problematico comprendere, il tutto secondo un disegno esemplarmente architettato da Le Clézio.

Il dodo, uccello e non solo
L’espediente di offrire a poco a poco, centellinandoli, elementi in grado di aiutare il lettore nella faticosa ricostruzione di quanto accade – questa tecnica così (cinematograficamente) raffinata – è al tempo stesso suscettibile di risolversi in un notevole, forse voluto, effetto di distrazione. È probabile che Le Clézio non puntasse tanto alla graduale comprensione, da parte del lettore, delle intricate vicende familiari che il protagonista ambirebbe ricostruire per poi raccontarle, al suo ritorno in Francia, all’anziana madre; piuttosto, la finalità di questa strategia compositiva sembrerebbe corrispondere profondamente alla tesi di fondo del romanzo: l’esistenza degli uomini sull’isola Mauritius, dall’arrivo degli Occidentali in poi, è condannata a una dialettica tra sfruttati e sfruttatori, che legandoli diabolicamente non lascia scampo né ai singoli né alla comunità. Estesa all’umanità uscita dalla Rivoluzione Industriale e che si è colonialisticamente impadronita del mondo intero, questa dialettica appare senza salvezza, né alternativa alla nichilistica insensatezza.

Proveniente, nel nome, da una antenata dei Felsen (la famiglia d’origine del protagonista che si stabilisce sull’isola dedicandosi alla cultura della canna da zucchero, in un grande fondo che funge da vera e propria città) Alma è un esperimento di civilizzazione, fallito in partenza, sul quale pende una maledizione che coinvolge progressivamente tutti i membri della saga familiare, anche quelli, come il padre del protagonista, che abbandonano l’isola nel corso della Grande Guerra per non tornarvi più. Notizie e indicazioni ulteriori ci vengono fornite, nel Glossario; ma suonano come un artificio per farci arrabattare attorno a problemi se non «falsi», almeno collaterali, di importanza relativa.

Uno tra gli altri fantastici strumenti di disorientamento approntati dall’autore, oltre a quello della saga familiare da ricostruire, riguarda la creatura chiamata «dodo», un uccello a lungo ritenuto «favoloso»; dodo è tuttavia anche il nomignolo dell’antenato del protagonista la cui voce si alterna alla sua. In parte concreta, in parte leggendaria, la natura del dodo somiglia alla vita dell’antenato, un reietto che abbandonerà l’isola per giungere in Francia e scomparire nel nulla: proprio come l’uccello, cui non spetta altro destino se non scomparire dalla storia.

Malinconia con suspense
Via via che il dodo-uccello e il dodo-personaggio viaggiano verso il nulla, elementi concretissimi, che sembrano narrativamente frenare la loro scomparsa, si aggiungono a disorientare il lettore: veniamo per esempio intrattenuti con notizie sulla pietra da ventriglio, che ci incuriosisce circa la capacità del favoloso dodo, ormai estinto, di «masticare» pietre particolari, una delle quali è nelle mani del protagonista dall’inizio alla fine della narrazione, e costituisce il vero legame tra lui e il padre.

Le Clézio semina segnali per supportare una costruzione narrativa che, in maniera insospettata, ci collega alla malattia dell’avo-dodo, il quale, affetto da una lebbra che gli consumato naso e palpebre, è stato reso inerme come il suo corrispondente dodo-uccello. Mentre l’atmosfera resta inguaribilmente malinconica, il romanzo di Le Clézio procede lasciandosi leggere con piacere fino a oltre la sua metà, per poi tendere ad accartocciarsi su se stesso, non prima che l’epilogo susciti, tuttavia, una certa suspense.