L’abbinamento tra le parole «musica» e «Vietnam» evoca essenzialmente l’esemplare canzoniere contro la guerra partorito da rockstar e folksinger negli anni ’60 e ’70. In seconda battuta, ma solo per gli amanti del rock più perverso, può viceversa evocare le (rarissime) sortite a favore dell’intervento Usa. Solo dopo aver escluso queste due possibilità è lecito pensare alla musica del Vietnam. Per questo un progetto come Hanoi Masters è un modo non come un altro per segnare il quarantennale della cacciata delle ultime truppe Usa presenti in Vietnam da Saigon.

Hanoi Masters - Photo by Marilena Delli (4)

Un disco, questo, che inaugura la collana «Hidden Musics» (Musiche nascoste) dell’etichetta statunitense Glitterbeat, consacrata a registrazioni sul campo «non mediate», pure, crude e raccolte direttamente all’origine. Rivelando qui forme musicali su cui gravano seri rischi di estinzione o quantomeno di sradicamento dalla memoria collettiva, dal patrimonio culturale di un popolo. L’arte raffinata di maestri (e maestre) fin qui “dormienti”, che non sembra trovare uno spazio degno nella “fonosfera” del Vietnam di oggi. Paese dai sensazionali tassi di crescita, lanciato verso uno sviluppo tumultuoso figlio del liberalismo economico e di un apparato statale che continua a definirsi comunista (la Cina è tanto vicina). E con una scena musicale affollata di gruppi metal e artisti hip hop, ma soprattutto di pop locale tutto lustrini e sentimentalismi, altamente derivativo di quello occidentale, ma con un’integrazione di glucosio mediamente insostenibile. L’indotto comprende la solita mania per il karaoke, che qui però consiste nel limitarsi a mimare il canto del divo di turno e non a sostituirlo (tecnicamente una forma di air karaoke), una girandola di videoclip patinatissimi ed eventi rutilanti (c’è anche un premio riservato alla «popstar vegetariana più sexy»).

Hanoi Masters - Photo by Marilena Delli (2)

Il tema del conflitto di cui sopra, che è ben noto in occidente come «Guerra del Vietnam» mentre in Vietnam si parla preferibilmente di «Guerra Americana», non ha nessuna possibilità di emergere da un simile contesto. Anzi. Hanoi Masters invece riparte da lì, quasi come un intimo resoconto della violenza e delle privazioni subite, della nostalgia per quel che sarebbe stata la vita senza napalm e raid dal cielo. Ed è nel sottotitolo che si annida il primo affondo poetico, War is a Wound, Peace is a Scar: «La guerra è una ferita, la pace è una cicatrice». Come dire, certi vissuti non si rimarginano facilmente. Tantomeno con i beni di consumo – anche immateriali – made in Usa.
Una musica dunque ben nascosta anche in patria. Che mescola la musica d’arte in uso presso le corti al tempo delle Dinastie e tradizioni popolari come quella dei cantastorie ciechi che erravano di villaggio in villaggio esibendosi nelle pubbliche piazze.

Voci contundenti e senza veli, che raccontano storie di ritorni a una casa che non c’è più, gesta di eroi ed eroine, di fidanzati e fidanzate che sono trasfigurazioni viventi di una terra troppo amata. Voci sospinte da un trionfo di liuti, cetre, percussioni e stupefacenti vielle da gamba come quella suonata da Nguyên Quôc Hùng, che prende il nome di k’ni e veicola un particolare codice poetico in cui è la bocca del suonatore a fare da cassa di risonanza mentre l’archetto accarezza la corda. Per il curatore della raccolta Ian Brennan, non per caso già produttore dei Tinariwen e quindi grande sostenitore del «rock» tuareg, è la prova sonante che a livello acustico il professor Theremin non s’è inventato niente. E anche un sistema come la tipica leva del tremolo di una chitarra elettrica in Vietnam, nella musica del Vietnam, era già in uso nel IX secolo.

Brennan è anche l’ingegnere del suono di questo progetto, che dopo aver scovato gli artisti poi riuniti in Hanoi Masters si è occupato materialmente di strapparli al silenzio in cui erano relegati. Letteralmente, nel caso asd esempio di Nguyên Thi Lân, che dopo la sua esperienza di combattente ha vissuto questi 40 anni rifiutandosi stoicamente di cantare, come se il reiterare quella pratica significasse suggerire che niente era successo. Ha ceduto solo a patto di poter restare sola davanti al microfono, ma una volta finita la registrazione si è di nuovo chiusa nel suo ostinato mutismo.

Il legame con la guerra americana è quindi diretto. I «maestri» in questione sono tutti “veterani”, inquadrati all’epoca nell’esercito vietcong con il preciso compito di dare conforto e iniettare coraggio nei compagni, secondo una pratica comune a tutte le epoche, a tutte le latitudini, a tutte le guerre di liberazione.

Hanoi Masters non celebra la fine del conflitto né la vittoria finale dei vietcong. Semplicemente non celebra, perché quel che il Vietnam ha perso nella guerra è per sempre.