Sono le 4 di mattina, a Gerusalemme fa ancora buio. Aden Jawad Joudeh al-Husseini percorre la breve distanza che separa la sua casa dall’appuntamento che scandisce ogni suo giorno. In mano una chiave di metallo di 20 centimetri: è la chiave che apre da nove secoli la Basilica del Santo Sepolcro, ricostruita nel 1128 dopo la distruzione ordinata dal califfo al-Hakim. Ad affidarla nel 1187 alla famiglia Husseini fu Saladino: scelse dei musulmani per impedire che la Basilica venisse vandalizzata, dando vita a un legame unico sulla terra da millenni culla delle tre religioni monoteiste.

«Custode delle chiavi della basilica del Santo Sepolcro», è il titolo tramandato per innumerevoli generazioni dagli Husseini e di cui oggi si forgia Adeeb.Ogni mattina alle 4 apre, ogni sera alle 19 chiude, rispettando un’identica cerimonia a cui assistono a rotazione i rappresentanti delle chiese del Sepolcro, cattolica, greca ortodossa, armena, siriaca, etiope, copta. Lui gira la chiave, loro tirano il portone verso l’interno.
A spingerlo dall’esterno è – dall’anno 637 – il membro di un’altra famiglia gerusalemita, i Nuseibeh. A loro per primi fu affidata la custodia della Basilica dal califfo Omar, nel XVII secolo, quando arrivò nella Città Santa e avviò l’islamizzazione della Palestina. I Nuseibeh si convertirono, fatto che interessò quasi l’intera popolazione palestinese, in molti casi in risposta all’occupazione dei crociati, già allora intrisi di un’ideologia «suprematista» di gerarchizzazione tra cristiani, noi e loro.

Gli Husseini si stabilirono a Gerusalemme nei secoli successivi e da allora custodiscono una chiave specchio di una storia familiare antica, intrecciata a quella della Palestina: hanno attraversato da protagonisti gli eventi che hanno trasformato, esaltato, devastato il paese. Sullo sfondo una rivendicazione significativa nel mondo islamico, la discendenza da Husayin ibn Ali, il figlio di Ali, che fu genero di Maometto e quarto califfo, considerato dallo sciismo successore legittimo del profeta.

Politici, religiosi, intellettuali, proprietari terrieri, gli Husseini sono stati spina dorsale dello sviluppo palestinese, economico e culturale. Alta e media borghesia, guida spirituale e politica, casa madre dei più importanti personaggi locali: un potere figlio della capacità di adattarsi alle diverse autorità impiantate in Palestina (di quella ottomana il clan fu spalla burocratica e politica). Raggiungendo i più alti livelli della gestione amministrativa, occupando i vertici del sistema religioso, stabilendo una rete clientelare con matrimoni combinati in tutta la Palestina storica, acquistando terreni, gli Husseini si sono presentati alle soglie del Novecento con in mano un’altra preziosa chiave: quella del nascente nazionalismo palestinese.

Se sotto l’impero ottomano la famiglia si appoggia a quel potere «transnazionale», opponendosi ai Giovani Turchi di Ataturk, con il crollo della Sublime Porta e l’inizio del Mandato britannico l’approccio cambia: gli Husseini diventano colonna del neonato movimento nazionale palestinese, precedente al 1948, organizzando partiti e unità armate contro l’esercito britannico prima e i paramilitari sionisti poi.
La «palestinizzazione» della politica nei grandi centri, Haifa, Jaffa, Acri, Gerusalemme (città dove nel secolo precedente erano nati quotidiani, teatri, organizzazioni femminili, radio e il primo sentimento nazionale) condusse nel primo Novecento allo spostamento da un’identità araba a un’identità più marcatamente palestinese, reazione all’arrivo dei primi immigrati ebrei e alla consegna britannica di terre al movimento sionista. Identico percorso per gli Husseini: se nei secoli precedenti avevano fondato la loro legittimità politica, economica e religiosa su caratteri islamici e arabi, con la consegna della Palestina a Londra e la consapevolezza del pericolo insito nel progetto sionista, il clan si palestinizza.

Andando a occupare ruoli chiave nel movimento di resistenza: Musa è sindaco di Gerusalemme tra il 1918 e il 1920; dopo il padre Mohammed Tahrir, Kamil è gran mufti della Città Santa fino al 1921, seguito dal poco più che ventenne fratello Amin, fondatore del Supremo Consiglio Arabo, originaria forma di resistenza organizzata all’occupazione britannica.
Musa e Amin sono tra i leader della rivolta del ’36-’39, prima vera Intifada, quattro anni di scioperi, disobbedienza civile, lotta armata che coinvolse migliaia di contadini, operai, intellettuali contro milizie sioniste ed esercito britannico.

La rivolta porta alla condanna del mufti Amin al-Husseini, la sua fuga in Libano e la messa al mando del Supremo Consiglio Arabo, ispiratore dei sei mesi di «sciopero delle arance».
La repressione è durissima: i britannici uccidono 5mila persone, ne arrestano decine di migliaia e decapitano la leadership nazionale palestinese che si presenta così all’appuntamento tragico del 1948 priva di forza.
Gli Husseini si riorganizzano: nel 1947 Abd al-Qadir (figlio del sindaco Musa) fonda l’Esercito della guerra santa, indipendente da quello messo in piedi (malamente) dai paesi arabi in risposta al piano Onu di partizione della Palestina in due Stati. L’8 aprile 1948 Abd al-Qadir muore in battaglia.

Un mese dopo, il 14 maggio, la leadership sionista dichiara la nascita di Israele. La Nakba, la catastrofe palestinese, investe anche la famiglia Husseini, dispersa nel mondo arabo. In Giordania, nel Golfo.
Una parte resta a Gerusalemme dove permangono due simboli della grandezza passata: la chiave di una basilica e l’Orient House, fondato da Musa nel 1897, quartier generale dell’agenzia Unrwa per i rifugiati nei primi anni dopo la Nakba e trasformata nella seconda fase del nazionalismo palestinese (dal 1967) nella sede dell’Olp, nei primi anni ’80.

Due decenni dopo un altro Husseini, Faisal, veniva sepolto avvolto nella bandiera palestinese sulla Spianata delle Moschee: figlio di Abd al-Qadir, nipote di Amin, è stato per anni il “sindaco” palestinese di Gerusalemme occupata.