Dopo, la sensazione è di sentirti addosso sfinimento e oppressione. Annusando l’aria sembrano entrarti nel naso odori insopportabili, dei quali non avevi prima conoscenza. Gli occhi non vedono la vita quotidiana che abitualmente mettono a fuoco. Guardano ancora altrove, ai grandi rettangoli appesi dentro le stanze dove è stata allestita la mostra Ashes/Ceneri, di cui, fino a un istante fa, sei stato spettatore. Ed è proprio a lei, alla mostra, che va attribuita la colpa, anzi il merito, di trovarti in questo stato d’animo. Centocinquanta fotografie; diciassette anni di reportage tra Balcani e Giappone, India e Bangladesh, ex Unione Sovietica. Una sola firma: Pierpaolo Mittica, quarantenne, dentista e fotografo; oppure, e già da tempo è così, fotografo e dentista. Le ceneri fissate da Mittica su pellicola, rare le concessioni al digitale, soltanto quando l’uso del colore si è rivelato necessario, sono sparse su dieci luoghi diversi del pianeta. Le ha raccolte il percorso espositivo che Pordenone, negli spazi della nuova Galleria comunale Harry Bertoia, propone fino all’11 gennaio 2015. Pur nella diversità di questi luoghi, il racconto diventa unico, sotteso dalla guerra distruttrice di una città o di una nazione, dalle tragedie ambientali che annientano una collettività o condannano a morte senza appello un intero territorio e la sua gente, dalla miseria più estrema e (per noi) impensabile, dalla schiavitù in versione aggiornata ai tempi moderni, da lavori terribili pagati meno di un microscopico pugno di soldi. Va premesso: Mittica ha trasformato in fotografia il racconto senza cedere di un millimetro al prurito della spettacolarizzazione, si è rifiutato di imbracciare l’arma così maneggevole del pietismo; ha tenuto a debita distanza di sicurezza tutto ciò che i media vogliono e impongono sovente a reporter e giornalisti quando si tratta di ‘vendere’ sofferenza, specie se l’argomento riguarda il Terzo Mondo. Altra premessa: guida preziosa è un libretto gratuito, all’ingresso della mostra. Nelle sue pagine, Pierpaolo racconta i luoghi in cui si è mosso, cosa è accaduto e lo ha spinto ad andare lì. Premessa finale una delle introduzioni al catalogo, a firma dello scrittore Luis Sepúlveda. Porta il titolo ‘L’arte della memoria urgente’, eccone un passo «Le immagini di Pierpaolo Mittica hanno la forza della contemporaneità, ci dicono che non dobbiamo attendere che la storia ufficiale passi al setaccio tutto ciò che, invece, dobbiamo far urgentemente diventare parte della nostra memoria recente». La nostra memoria tende ad appannarsi e a dimenticare con rapidità. Gli eventi drammatici si susseguono, si accavallano, si sovrappongono. Ciò che oggi focalizza l’attenzione e apre uno scenario sul quale riflettere, qualche tempo dopo viene superato da un altro evento. Giornali e televisioni fanno la loro parte nell’oblio, salvo riportare alle luce eventi quali il conflitto dei Balcani, Chernobyl, Fukushima, quando ne cade l’anniversario. Poi torna il silenzio. Ci siamo dimenticati della guerra dei Balcani, di Chernobyl, di Fukushima, oppure non ci ricordiamo bene cosa avvenne. Mittica le rimette davanti al nostro sguardo. I Balcani sono macerie urbane e un uomo che ci cammina in mezzo, reso minuscolo dalla prospettiva dello scatto; facce sperdute dietro i finestrini di un bus urbano che su una fiancata espone la pubblicità multietnica della Benetton; tre bambini, pistole – giocattolo in mano a fingere la guerra dentro una guerra vera. Fango, acqua, nubi immense, quartieri e case disabitati per sempre, la vecchia di nome Elena mentre davanti alla sua casa guarda passare una fila di anatre; la piccola Eugenia, nove anni, ammalata di leucemia, a mostrare dal letto la foto della bambina che era; la ruota e i seggiolini del parco giochi Prypiat che non girano più. Questa la Chernobyl di Pierpaolo tra il 2002 e il 2007. Di sobrietà potente le immagini di Fukushima, realizzate tra il 2011, quando il terremoto danneggiò i sistemi di sicurezza e di raffreddamento del reattore nucleare gestito dalla Tepco, e il 2012. Il reportage si muove tra i dettagli: un giubbotto di pelle e accanto un vinile, abbandonati sul pavimento di una casa; un paio di infradito sotto un mobile; un calendario con la data fatale dell’11 marzo sulla parete di un ufficio ridotto a cumulo informe di computer, scrivanie, divani, dossier; un supermarket dopo un saccheggio; Mutzumi e altri residenti mentre raccolgono le poche cose superstiti della propria abitazione prima di andarsene per non tornare mai più; il signor Matzumoto, contractor della Tepco, in preghiera sulla tomba di famiglia. Lacrime nascoste dietro il velo di una mascherina di protezione.

Il recupero della memoria è, tuttavia, solo una parte, indubbiamente significativa, del lavoro di Mittica. Altrettanto significativa, infatti, è la ricerca compiuta dal fotografo per togliere il velo a catastrofi ignorate o nascoste, allo sfruttamento di uomini e bambini, a una povertà di cui non riusciremo mai ad essere pienamente consapevoli. Il dramma della povertà aleggia in tutti gli spazi della mostra. La sua traduzione nella richiesta di elemosina è immortalata nella foto scattata da un taxi di Mumbai, megalopoli indiana, sedici milioni di abitanti. Un uomo con la barba, turbante in testa, protende un braccio, la mano spalancata, all’interno dell’auto. I suoi occhi sono sbarrati. Pierpaolo descrive così quello scatto «Ero a bordo del taxi, fermo nel traffico. Il mendicante si affaccia al finestrino, tende la mano, io cerco in tasca qualche moneta, il taxi si rimette in moto. E allora l’uomo assume un’espressione disperata. Sta perdendo gli spiccioli della carità. Sono riuscito lo stesso a dargli i soldi. La foto ha per me un valore aggiunto: in quel momento e da quell’episodio, ho cominciato a capire cosa fosse, e continui ad essere, l’India dei senza nulla, del fango, degli slum». Due sale successive fanno entrare il visitatore in altrettanti mondi per lui inconcepibili. A Mumbai, un quartiere di Dharavi, la più grande bidonville di tutta l’Asia, si chiama Compound 13; a Dhaka, capitale del Bangladesh, oltre sessantamila bambini sopravvivono in strada e sono stati soprannominati tokai. ‘Tokai kora’ significa, in lingua bengali, ‘raccogliere rifiuti’. È il destino che spetta ai piccoli di Dhaka e di Compound 13, arrampicati per ore e ore sulle pendici delle discariche urbane, tra miasmi pestilenziali, plastica e ferro, materiali in decomposizione. A Dharavi raccolgono ogni giorno oltre 600 tonnellate di plastica destinata al riciclo. Quanto guadagnino non è dato sapere, ma di certo lo sfruttamento più ignobile è la base su cui poggia il compenso. Un’immagine emblematica: lui potrà avere dieci anni, guarda verso il basso. Reggendo in una mano un sacco, con un bastone nell’altra fruga in mezzo ai rifiuti. A fargli compagnia soltanto il volo di grandi uccelli che aspettano di individuare qualcosa di cui nutrirsi. Dalla cima delle discariche alla cima e alle viscere di un vulcano, il Kawah Ijen, sud dell’isola di Java, Indonesia. Mittica documenta con l’uso del colore l’inferno in cui si calano, due volte al giorno e per un massimo di due ore consecutive, gli schiavi dello zolfo. Salgono fino alla sommità del vulcano, entrano nel cono rovesciato invaso da esalazioni e vapori, riempiono di minerale una cesta, risalgono, si caricano in spalla la cesta e, a piedi, raggiungono il centro di lavorazione. L’equivalente di sei euro è il compenso giornaliero. La morte, le malattie polmonari, la cecità sono casi di ordinario accadimento.

Esistono, e siamo alla fine di un viaggio che scuote la coscienza, altre Chernobyl. Ma chi le ha mai sentite nominare? Si chiamano Mayak e Karabash, disastri ecologici avvenuti ben prima che il nome di Chernobyl si trasformasse in sinonimo di catastrofe. Tre gli ‘incidenti’ della centrale nucleare di Mayak, Urali, provincia di Chelyabinsk, 1500 chilometri da Mosca, costruita nel 1948. Il primo avvenne tra il 1949 e il 1952, e riversò nel fiume Techa scorie ad alto livello radioattivo. Il secondo nel 1957, con l’esplosione di un serbatoio di stoccaggio di rifiuti radioattivi. Il terzo dieci anni dopo. Il lago Karachay, utilizzato per riversare le polveri nucleari della centrale, si prosciugò a causa di un’estate particolarmente torrida. Un tornado sollevò le polveri, contaminando un’area del diametro di 400 chilometri. Il conto, ad oggi, è di oltre un milione di persone contaminate, di cui il 78 per cento affette da leucemia o cancro; il 30 per cento dei bambini nasce con malformazioni, il 50 per cento di uomini e donne è sterile, 25 villaggi sono stati evacuati e distrutti. La centrale continua a funzionare. Karabash, ancora provincia di Chelyabinsk. Dalle note del libretto di Mittica «Karabash è uno dei luoghi più inquinati della Terra. In città opera una fonderia di rame… Dal 1910, quando l’impianto ha cominciato a funzionare, più di 180 tonnellate di biossido di zolfo e di metalli pesanti sono state rilasciate nell’aria ogni anno. Le foreste, i fiumi, la terra hanno un colore arancione a causa dei residui della lavorazione del rame e del ferro, la cui concentrazione è 500 volte superiore alla norma, Le immense emissioni di anidride solforosa e il particolato atmosferico sono ritenuti responsabili della maggior incidenza tra la popolazione di malattie della pelle, cancro, ictus e malformazioni congenite». Bianco e nero e colore si alternano nelle visioni spettrali di un luogo ridotto ormai soltanto a un cartello stradale; popolato di esseri umani destinati a morire, secondo le statistiche, mediamente intorno ai 45 anni; spezzato a metà da una montagna di detriti, battezzata ‘Black slag’, ‘Scoria nera’. Chiusa nel 1980 in seguito a forti pressioni di gruppi ambientalisti, otto anni dopo la fonderia è stata riaperta. Lo hanno voluto gli abitanti di Karabash. Senza la produzione del rame assassino, qui non si vive. Analoga storia passa attraverso le immagini di Magnitogorsk, la città dell’acciaio, di nuovo Chelyabinsk. «Nel ’94 ero in vacanza a Danang, Vietnam, con amici. Giravo a fare foto. Per puro caso, capitai in una bidonville. Compresi allora che non volevo raccontare il mio viaggio, ma il loro». Parafrasando: dietro ogni grande fotografo c’è sempre una grande sensibilità. È lei che continua a spingere Pierpaolo Mittica fuori dalla sua Spilimbergo, felice cittadina del Friuli, verso le più estreme e tragiche periferie del mondo e dei mondi.

 

La mostra

Ashes/Ceneri. Racconti di un fotoreporter

Galleria Harry Bertoia, corso Vittorio Emanuele 60, fino all’11 gennaio 2015

Info: 0434/392915, artemodernapordenone.it