Le persone immuni al coronavirus potrebbero essere più numerose di quanto pensiamo. È quanto sostiene il ricercatore e giornalista Peter Doshi sul British Medical Journal, alla luce di un numero crescente di ricerche apparse nella letteratura scientifica negli ultimi mesi. Per ora è solo un’ipotesi con qualche indizio. Ma se così fosse, l’immunità di gregge che ci proteggerà dal Covid-19 potrebbe essere più vicina.

Finora, le ricerche mostrano che gli anticorpi contro il coronavirus sono presenti in percentuali molto basse della popolazione. In Italia, uno dei paesi più colpiti, le stime si aggirano intorno al 2,5% della popolazione. Molto meno del 50-60% ritenuto necessario per l’immunità di gregge contro il Covid-19. Questo suggerisce che il virus «ha ancora molta strada da fare», come ha detto il responsabile per le emergenze dell’Oms Mick Ryan.

Ma non bastano i test sierologici per misurare la percentuale della popolazione immune al coronavirus, sostiene Doshi. Gli anticorpi sono solo una delle componenti della risposta immunitaria insieme a cellule dendritiche, macrofagi, linfociti T e B capaci di memorizzare le passate infezioni e riattivarsi quando si ripresentano. L’ipotesi di Doshi è proprio che le cellule T addestrate da altri coronavirus (per esempio quello del comune raffreddore, che ha molte somiglianze con Sars-CoV-2) siano in grado di proteggere almeno in parte dal coronavirus.

«Almeno sei studi – scrive Doshi – hanno documentato la reattività delle cellule T contro il Sars-CoV-2 nel 20-50% della popolazione che non è stata esposta al virus». L’italiano Alessandro Sette dell’Istituto di Immunologia di La Jolla (Usa), ad esempio, ha trovato cellule T reattive contro il coronavirus in metà dei campioni di sangue prelevati tra il 2015 e il 2018, quando l’attuale pandemia era ancora lontana. Inoltre, sono documentati diversi casi di persone guarite con livelli bassi o nulli di anticorpi. La reattività delle cellule T sviluppata memorizzando la risposta ad altri patogeni è chiamata “reattività crociata”. «Ad oggi ci sono diversi studi che osservano questa reattività in laboratori di diversi continenti» afferma Sette. «Uno scienziato sa che questo è un indizio che si tratta di una possibilità molto concreta». Eppure, l’attenzione di ricercatori e media si focalizza sugli anticorpi più che sulle cellule T. La ragione è semplice, secondo un altro immunologo, lo svedese Marcus Buggert del Karolinska Institute di Stoccolma: «Studiare gli anticorpi è più facile, rapido ed economico».

La reattività crociata non rappresenterebbe una sorpresa. Nel 2009, l’influenza suina sembrava doversi diffondere a livello globale con altrettanta virulenza. Se non avvenne, spiegano oggi gli immunologi, fu anche grazie a un certo grado di immunità già presente grazie alle influenze precedenti. «Ma nel 2020 quella lezione sembra essere stata dimenticata», sostiene Doshi.

Serviranno molte altre ricerche per confermare o smentire l’ipotesi. In caso positivo, diversi luoghi comuni sulla pandemia andranno rivisti. Se il livello di immunità nella popolazione fosse più elevato, la corsa a un vaccino a tutti i costi sarebbe meno impellente. Lo si potrebbe capire attraverso i test in corso sui vaccini, confrontando l’evoluzione dei volontari con le cellule T reattive da quelli che ne sono sprovvisti. Le società farmaceutiche non sembrano intenzionate a fornire questi dati. All’epoca della suina, Doshi condusse una dura e vittoriosa battaglia contro Big Pharma per rendere pubblici i risultati dei test sul farmaco Tamiflu, che si rivelò molto meno efficaci di quanto sosteneva l’azienda produttrice Roche. Anche oggi la ricerca sui vaccini potrebbe rivelare sorprese, se si ponessero le domande giuste. «La reattività crociata – si chiede Doshi – potrebbe fornire una protezione persino superiore ai futuri vaccini? Senza studiare la questione non lo sapremo».