Il mio tentativo è stato quello di portare in un romanzo il linguaggio e lo stile asciutto dei

fumetti, senza dare spazio alle considerazioni e ai retropensieri dell’autore. Mi interessava

mettere in scena solo i fatti e scrivere i dialoghi dei personaggi come in un ipotetico film,

adoperando anche alcuni procedimenti narrativi tipici del cinema come il flashback o il

cambio di scena come fosse uno stacco di montaggio” Marcello Garofalo (critico cinematografico per Segnocinema e Ciak, regista, sceneggiatore, saggista) racconta così la genesi del suo primo libro di narrativa, Le calde notti del diabolico Dr. Carelli, presentato lo scorso 4 dicembre al Noir in Festival di Milano e uscito da poche settimane, anche in versione inglese, per la Dark Gem Press. Questa horror-comedy, dalle grandi potenzialità visive e colma di venature surrealiste, ha per protagonista Phillip Carelli, un ragazzo morto a diciannove anni, ucciso in strada da un killer incappucciato senza un apparente motivo. La zia di Phillip, Eleanor Ruth Carelli, è una biologa e ricercatrice scientifica di fama internazionale e avventurosamente riesce a trasportare il corpo di Phil al suo laboratorio nella foresta amazzonica, dove ha perfezionato una sperimentazione che da giovane studentessa aveva giurato di abbandonare. Guidata da un profondo amore per il nipote e dalla necessità di comprendere la natura della vita umana, riporta Phillip alla vita, trasformandolo in uno scheletro vivente ma non appena Phillip riesce a superare lo shock di ciò che è accaduto, e a ottenere il controllo sulla sua nuova forma di esistenza, si rende conto di avere una “missione” da compiere. Tornato a New York, rintraccia il suo primo amore, Joan e l’attuale compagno di lei, il professor Tony Seppilli e li recluta entrambi per eseguire al meglio il suo programma. Garofalo è, in primis, regista e critico cinematografico, dunque la prima, naturale conseguenza è l’attuare procedimenti filmici all’interno della struttura narrativa come, ad esempio, l’uso “alla Sergio Leone” del flashback, immagini-memoria che forniscono indizi sulle motivazioni e il carattere del personaggio, definite da Garofalo stesso “definizione progressive”, ma anche l’abbondanza, mai gratuita, di omaggi e “memorie affettive” come egli ha precisato: da Roger Avary, a John Carpenter, senza dimenticare l’amatissimo Fulci e il Frankenstein di James Whale. A partire dalla titolazione dei capitoli, che sembrano titoli di splendidi film mai realizzati, lo scrittore adotta quel procedimento tarantiniano di assimilazione creativa che rifugge la citazione fine a se stessa ma bensì diventa grammatica per nuovi approdi testuali e visivi e questo assemblaggio, solo apparentemente sfrenato e schizoide, obbedisce in realtà a una precisa filosofia. Garofalo infatti non è nuovo a riflessioni di questo tipo, basti pensare, senza dimenticare i suoi lavori per il cinema come il recente Il signor Rotpeter co-sceneggiato insieme alla regista Antonietta De Lillo, alla mostra collettiva milanese di qualche anno fa del collettivo Kalzenere che esplorava le deviazioni, ormai molteplici, dal buon gusto, contemplando – tra i tanti – l’orrido, il dark e il giocoso. Un’orgia addomesticata di immagini, allora, che oggi si fonde e prende corpo nelle pagine di un romanzo capace di offrire una fusione (mai gratuita e/o grottesca) tra disgusto e fascino e il piacere di una narrazione sfrenata.