Chiamiamola Rosalinda. È seguace dell’esortazione pitagorica: «Scegliete buone pratiche, l’abitudine ve le renderà piacevoli». Per lei è piacevole, ad esempio, rifiutare i rifiuti. Prima di tutto non comprandoli. Ecco come.

È sabato mattina. Accompagniamo Rosalinda nel suo giro di compere leggere, evitando anzitutto gli imballaggi usa e getta, di qualunque materiale, espressione di un noncurante presente fossile. Naturalmente solo leggi rispettate potrebbero generalizzare questo comportamento: «Occorrono politiche che impongano agli utilizzatori di packaging di perseguire obiettivi di prevenzione (dematerializzazione del packaging) e riuso, prima che di riciclo e compostaggio» spiega Silvia Ricci, coordinatrice delle campagne dell’Associazione Comuni virtuosi. Si può cominciare dalla regina del packaging: la plastica, l’80% dei rifiuti marini. Che controsenso: la plastica, materiale eterno, gettata dopo un unico impiego! Spiega il Wwf che la produzione mondiale di plastica è passata dai 15 milioni del 1964 agli oltre 310 milioni attuali. Eloquente, poi, il titolo del rapporto Plastica: il riciclo non basta. Produzione, immissione al consumo e riciclo della plastica in Italia redatto dalla Scuola Agraria del Parco di Monza per conto di Greenpeace.

Del resto la riduzione a monte è la prima R della gerarchia europea dei rifiuti. Rosalinda la rispetta.

LA SUA MATTINATA all’insegna della prevenzione dei rifiuti ha il suo tempio in un bottega del Negozio leggero, un franchising di punti di vendita diffusi in svariate città. Un’altra catena italiana è Effecorta. Sugli scaffali, solo alimenti e prodotti completamente sfusi (se secchi) o alla spina (se liquidi). «Abituiamoci a vedere le cose senza imballaggi»: lo slogan campeggia dietro la cassa.

Altri negozi, per esempio le catene del bio, offrono sfusi e alla spina almeno parziali. Ma qui al Leggero è tutto disimballato. Nei grossi contenitori cilindrici trasparenti lungo le pareti e al centro del negozio c’è di tutto: cereali legumi farine pasta spezie frutta secca biscotti caffè tè tisane spezie frutta essiccata condimenti essiccati integratori naturali fiocchi per latti vegetali. E poi ecco saponi e shampoo solidi a taglio, detersivi concentrati, detergenti, dentifrici deliziosi e cosmetici con vuoto a rendere, vini, igiene per l’infanzia. Ovviamente, l’unico prodotto animale presente sono le uova: per carne e pesce lo sfuso è davvero difficile da reggere igienicamente. Per Rosalinda e famiglia no problem; ma chi mangia prodotti animali, teoricamente potrebbe portare contenitori durevoli nei banchi dei supermercati, dei mercati e dei negozi; occorre però convincere il venditore…).

TORNIAMO AL NEGOZIO LEGGERO: quali imballaggi hanno diritto di varcarne la soglia? Niente shopper di plastica da asporto, ça va sans dire. Sono del resto vietati dal 2012, ma Rosalinda vede ancora per le strade tante persone che li tengono per mano; li sforna una fiorente industria in nero. L’unica concessione del Negozio leggero sono sacchettini di carta molto sottile, per i distratti che non portano i contenitori da casa. In vendita poi le retine di cotone vecchio stile (made in Italy), e poi borse di tessuto con i manici, bottiglie da riporto, e i sacchetti di tela per contenere i vari prodotti a peso. Quando sono sporchi (è pure difficile) li lavi. Rosalinda porta tutto da casa; è una sfida. Nelle sue borse da asporto – comode da spalla – fatte con colorati vecchi sari indiani venduti con successo dalle botteghe del Mondo del commercio equo, ha le bottiglie per i liquidi alla spina nonché sacchetti multicolori per lo sfuso – cuciti velocemente partendo da vecchie maniche di camicia – e alcuni contenitori di plastica durevole – è il monouso il problema. Se prevede grossi acquisti, il carrello spesa. Il suo, oggi, ha incrociato quello di un signore arrampicatosi su un cassonetto per trasformare un rifiuto in qualcosa di vendibile.

S’intrecciano fra i clienti i consigli e i minuti di attesa diventano un minicorso. Un uomo spiega: «Mia moglie non ha più l’eczema alle mani da quando usa il sapone alla verbena». Una ragazza chiede come si usa il «misto siciliano» (un gustoso insieme di ortaggi essiccati). Rosalinda, di suo, mette una delle tante veg-salse istantanee che si è inventata: la «maionese» con lievito alimentare, acqua, succo di limone, olio e capperi. Questione di organizzazione e voglia, più che di tempo.
Anche il pane, lì, è disimballato. Rosalinda frequenta anche varie panetterie: gli addetti pesano e poi fanno cadere il filone direttamente nel sacchetto di tela variopinta che lei tiene aperto. Più facile farlo che dirlo. Del resto, diceva il rivoluzionario cubano José Martí, «il modo migliore per dire è fare».

UNA VOLTA A CASA, Rosalinda ripone gli acquisti in vasetti, scatole e scaffali e piega i sacchetti. Nemmeno un rifiuto. Praticamente non fa la raccolta differenziata. Ma c’è di più. Oltre a guardare a valle (niente discariche né inceneritori) dobbiamo guardare a monte, allo zaino ecologico di un prodotto. Occorrono molti meno camion (dunque meno inquinamento atmosferico, meno emissioni climalteranti, meno incidenti, meno rumore) per trasportare, a parità di consumo finale, i prodotti sfusi rispetto agli alimenti ipertrasformati e iperconfezionati; per non dire di quelli che richiedono l’energivora catena del freddo.
E l’ortofrutta? Rosalinda frequenta un mercato di produttori. Si fa pesare gli alimenti sulla bilancia, il tutto è poi versato nelle sue retine iper-capienti. E’ uno dei gesti immortalati nel breve video muto Le mani del futuro, della campagna «Previeni i rifiuti cambia la vita» (Postribù e Mani tese). Nel supermercato biologico Natura sì, da alcuni mesi per l’ortofrutta sono stati introdotti i sacchetti riutilizzabili. Per zucca, melone e altri grossi: adesivo sulla buccia. L’addetta dice che i clienti si dividono a metà fra chi sceglie i sacchetti riutilizzabili e chi rimane fossilizzato sul monouso, seppur biodegradabile. In vari paesi europei, «nei punti vendita della grande distribuzione organizzata si sta sperimentando il ricorso a sacchetti durevoli e lavabili anche per l’ortofrutta.

A PROPOSITO DI VEGETALI. Rosalinda si cruccia per l’umido, o frazione organica, che la «sua» città spedisce a impianti distanti centinaia di chilometri. Pazzesco far viaggiare i torsoli di mela! Lei e i suoi fanno parte di un orto urbano e fanno il compost (un’amica lo fa sul balcone); e poi grazie ai consumi bio minimizzano lo spreco usando molto anche certe buone bucce. Ma in generale, possibile che con la tecnologia del XXI secolo non si arrivi a produrre humus nei giardini dei condomini o anche nei parchi urbani?

Dipende molto dalle amministrazioni e istituzioni in giro per l’Italia. Le stesse che potrebbero inoltre evitare gli scomodi piatti di plastica usa e getta nelle mense. Quanto ai singoli: al lavoro, alle feste estive o a incontri mangerecci, è così difficile portare da casa piatto, bicchiere e cucchiaio o le moderne versioni degli antichi portavivande operai (che non a caso hanno un nome diverso per ogni dialetto…) e rimetterli in borsa dopo aver fatto la scarpetta? Si mangia e beve in comodità, mentre gli altri lì intorno traballano con precarie stoviglie monouso. Ogni volta Rosalinda si stupisce: la gente sceglie la mancanza di comfort pensando di scegliere il comfort.

Con compassione un po’ irosa, incrocia chi si trascina per strada le confezioni di acqua imprigionata in bottiglia. Pesanti eh? Che fatica inquinare. In tanta parte d’Italia l’acqua dei rubinetti – in casa e fuori casa, in cucina e in bagno! – è buonissima, non è nemmeno necessario andare alle casette distributrici di acqua; oppure basterebbe un filtro e controllare gli ultimi metri, quelli nei condomini. Caraffe e borracce sono oggetti del passato adatti al futuro; gli antichi sali minerali possono rendere frizzante l’oro bianco. Ed evviva le tante ricette di bibite domestiche a base di acqua e materie prime naturali. Anche al bar, Rosalinda ha imparato a prevenire la falsa gentilezza dell’acqua di bottiglia (di plastica) servita in un bicchiere (di plastica): «Acqua del rubinetto, nel vetro, per favore».

ED ECCO UN ALTRO POSTO AMICO. «Come lavi la borraccia? Guarda la mia, aloni di tisana»: sportello di Banca etica, Rosalinda chiede questo consiglio poco finanziario all’operatrice di sportello che ha appena bevuto da una bella e linda bottiglietta azzurra durevole, piena di acqua del rubinetto. Nell’angolo dell’attesa, ha preso – per regalarlo – il volantino di Reware, una cooperativa di Monti Tiburtini che il giorno prima le ha riparato il computer che sembrava morto. Oltre a prolungare vite digitali, i tecnici resettano computer dismessi da aziende o dai loro clienti, per rivenderli a prezzo modico o cannibalizzarli. È un riuso che risparmia materie prime rare e dà una grande mano alla gestione dei Raee (rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche), ancora troppo spesso abbandonati randagi.
In una cartoleria, Rosalinda ricompra un evidenziatore giallo, ha finito il suo dopo averlo a lungo temperato. Temperato? È a matita, niente involucri. E le cartucce della stampanti? Via, a rigenerarsi in un eco-store, dove si possono anche comprare le risme di carta riciclata, ancora pochissimo richieste purtroppo. Sono invece ormai piuttosto diffusi i rotoli di carta igienica ecologica. E sempre a proposito di prodotti d’igiene: Rosalinda è contenta di aver acquistato per le amiche sia il kit dei pannolini lavabili per neonati (con istruzioni per minimizzare sforzi) sia la mooncup, preziosa quanto ignota alle più.

CHE GUSTO, I NEGOZI DELL’USATO SOLIDALE, terminal di un’economia circolare che pesca dall’enorme giacimento di quanto è già stato prodotto. Da Emmaus, si è arredata la casa. E si sente leggera quando esce con acquisti da Vintage e Second Hand dell’organizzazione Humana People to People Italia, che con il ricavato finanzia da decenni progetti di organizzazioni africane e indiane. «Usato, l’eterno ritorno», recita il biglietto da visita del rigattiere Tonino. Le ricerche della cooperativa Occhio del riciclone riscontrano una buona creazione di posti di lavoro nel settore dell’uso e riuso, soprattutto se si introduce l’up-cycling o trasformazione: lavoro puro con pochissimo consumo di nuovi materiali.