Un clamoroso paradosso segna la nostra epoca. Forse mai, come oggi, a una conoscenza così profonda delle contraddizioni insostenibili, a una consapevolezza universale delle ingiustizie che lacerano il mondo, era corrisposta una così perdurante impotenza da parte delle grandi masse popolari e delle forze antagoniste che vogliono combatterle. Marx è ritornato ad essere un nostro contemporaneo. Seguito da una ricchissima costellazione di analisti.

Da Bauman ad Harvey, da Piketty al nostro Gallino, per citarne pochissimi – ci consegnano una radiografia dei meccanismi profondi della società capitalistica di rara ricchezza e densità. Quanto alla consapevolezza , l’ultima enciclica di papa Francesco ci fa facilmente immaginare quanta vasta sia nel mondo cattolico, fra centinaia di milioni di persone, la cognizione sulle cause fondative delle disuguaglianze, sulle storture di un capitalismo che ormai minaccia la vita sulla Terra. Che cosa rende allora possibile tale palese contraddizione, tra i molti che sanno e i pochi vessatori che comandano, tra i più che soccombono sotto il peso di una società ingiusta e le élites che la controllano, tra il 99 e l’1 per cento?

Le ragioni sono tante, ma quella fondamentale è negli strumenti di lotta. Partiti e sindacati sono stati, in parte o in tutto, divorati dal capitalismo.I vecchi partiti comunisti e socialdemocratici, di fronte all’imballo sistemico delle economie pianificate dell’Est, a partire dagli anni ’90, si sono fatte parassitizzare dalla cultura neoliberistica. Ne hanno sposato gli obiettivi e il linguaggio. Si sono «rinnovati» indossando i panni dell’avversario. Ma oggi siamo già in una nuova fase.

Non è più l’ideologia neoliberista, azzoppata da una disfatta storica di vasta portata, a guidare i processi, ma sono le forze materiali in campo. Il capitalismo sopravvive intatto alla sua sconfitta culturale grazie alla potenza della sua organizzazione, alla sua forza materiale, ma anche grazie alla dispersione dei suoi antagonisti. Questo modo di produzione e di consumo tende perciò, per sua intima necessità, a invadere ogni campo della vita, a sottomettere a un processo di estrazione di profitto ogni angolo del vivente. Così, anche i partiti, macchine elettorali prive di progetto di trasformazione sociale, sono sempre più fagocitati negli affari delle attività imprenditoriali (appalti, grandi opere, società di servizi, consigli d’amministrazione, eccetera) ed entrano sempre più pienamente nell’industria dello spettacolo, nelle sue logiche, nei suoi linguaggi . Diventano, a vario titolo, segmenti del mercato.

Appare oggi dunque evidente quale sia, in Italia e nel mondo, l’imperativo della nostra epoca: rimettere in piedi le forme organizzate del conflitto. Il capitale possiede i generali e vari altri gradi di comando, perfino dei caporali (spesso molto loquaci), ma noi possediamo l’esercito, siamo l’esercito potenziale.

Che cosa si aspetta dunque a fare di questa assenza gigantesca, di questa dispersione frammentata della nostra potenza, l’oggetto fondamentale delle nostre cure, il centro su cui far convergere il nostro pensiero, il nostro impegno immaginativo? Costruire una nuova forza capace di organizzare il conflitto sociale, che non somigli ai vecchi partiti, che ne erediti le esperienze migliori ma che sappia attivare meccanismi di trasparenza, democrazia e partecipazione sconosciuti al passato e all’oggi: ecco la sfida che abbiamo di fronte.

Del capitalismo sappiamo ormai tutto e certamente continueremo a studiarlo. Ma oggi è l’ora dell’iniziativa, l’ora della costruzione paziente ma celere delle armi politiche. Com’è noto, in Grecia e in Spagna, su tale terreno la sinistra ha già conseguito risultati importanti. Ma noi? Il paese che ha visto il più grande Partito comunista dell’Occidente, che ha un sinistra fra le più significative d’Europa? Anche qui occorrerebbe rispondere alla domanda: perché tanto ritardo? Non sono mancate, nel dibattito corrente degli ultimi tempi, risposte sensate.

Ma un paio di considerazioni rapide si possono aggiungere. Manca spesso nel nostro ambito, anche tra dirigenti di provata esperienza, il senso della temporalità dei fenomeni. Sergio Cofferati, ad esempio, a proposito della nascita di una formazione politica a sinistra del Pd – ma in questo rappresentando l’opinione di altri esponenti politici – ha dichiarato che il processo, necessario, avrà tuttavia tempi lunghi. Ora, come sappiamo, la gatta frettolosa fa i figli ciechi. E la formazione dei partiti è stata sempre un processo storico più o meno lungo. Ma è anche vero , come ironizzava Keynes, che nei tempi lunghi saremo tutti morti. La soggettività politica ha per l’appunto il compito di forzare le inerzie che il corso della storia trascina con sé, di far nascere ciò che potenzialmente esiste ma non prende forma perché manca l’iniziativa creatrice della politica.

Ora, nelle nostre file, e spesso tra le migliori intelligenze, si annida una incomprensione che è alle fondamenta più recondite delle nostre divisioni, della nostra frammentazione, della nostra inerzia. Non sono pochi nella file della sinistra coloro che concepiscono la lotta politica come una mera pratica culturale. È sufficiente produrre buone idee per mettere olio nelle ruote della storia. Purtroppo questo non basta, meno che mai nella nostra epoca, quando una buona idea deve farsi spazio nell’etere fra mille menzogne o tra la pubblicità dei pannolini. Naturalmente, le idee sono poi fondate su convincimenti profondi, investono principi etici e ciò crea passione – propellente necessario alla lotta – ma anche intransigenza. Altra virtù necessaria.

Ma a tutto questo manca spesso un ultimo elemento, forse il più raro, il più scarso in natura: il senso della realtà. È un tipo di intelligenza delle cose, un sapere che non si insegna in nessuna Università. E dentro c’è la percezione dei rapporti di forza in campo, la consapevolezza dei propri mezzi, la visione della situazione presente, la valutazione del possibile. Una capacità di sguardo che genera l’esigenza del raccordo organizzativo tra le persone, la ricerca delle soluzioni , il gusto della mediazione, la vista di passaggi intermedi.

Rompendo una inerzia non più tollerabile, Nichi Vendola e Sel hanno avviato in questi giorni una iniziativa lodevole e necessaria. È auspicabile che venga condotta nelle forme più aperte, trasparenti, inclusive che l’attuale cultura politica della sinistra radicale pretende. Ma nel popolo frammentato dei movimenti, tra i dispersi, nel generoso e disilluso popolo della sinistra, deve scattare oggi il senso della realtà che l’epoca richiede. Non solo ognuno deve fare la propria parte. Ma ognuno deve saper rinunciare a parte delle proprie ambizioni, anche intellettuali, in cambio di una unità organizzata che fa la forza di tutti.

Il più temibile nemico da battere è oggi la nostra divisione, e senza una forza plurale ma unitaria nessuna idea ha gambe per camminare. Si dice che abbiamo bisogno di un nuovo soggetto politico. Ma per realizzarlo avremmo bisogno di una nuova soggettività politica, la consapevolezza che il nostro ombroso e intransigente individualismo è spesso il calco vittorioso della cultura avversaria.