Dunque alla fatidica data del 26 aprile è arrivata la riapertura dei teatri, come dei cinema e dei musei. Per questi ultimi forse più «facile» affrontare il ritorno del pubblico, ma il teatro, per sua stessa natura, ha subito lo sconcerto iniziale di approntare un cartellone. Dopo l’iniziale souplesse, si cominciano a fare i calendari: con spettacoli più semplici, meglio ancora monologhi, ma anche cose più impegnative che gli stabili e i teatri più ricchi hanno tenuto pronti. Sarà un processo di adeguamento progressivo alle norme oggi necessarie, dagli orari da allineare con quelli di tutta Europa (dove si va a teatro tra le 18 e le 19), alle mascherine e altre precauzioni.
Lo stabile umbro, ad esempio, può finalmente mostrare al Morlacchi di Perugia un lavoro importante su Guerra e pace di Tolstoj (regia Andrea Baracco drammaturgia Letizia Russo), che prevede nelle repliche integrali due ore per sanificazione del teatro. Una maratona che renderà oculato l’utilizzo degli spazi. E ancora più difficile, per teatri e compagnie, saràridisegnare mappe e calendari, la cui programmazione in questi mesi è stata annullata e rifatta molte volte. L’altra istituzione che non si mostra impreparata è sicuramente Torino, che ha continuato anche nel lockdown a provare ed allestire spettacoli, oggi pronti. Purtroppo questo riguarda solo una fetta di enti e lavoratori in qualche modo garantiti.

POCO GOVERNABILE in maniera sensata è invece l’assai più vasto universo dei lavoratori teatrali, tecnici e interpreti assunti a tempo, senza garanzie né ristori. La politica del ministero di Franceschini risulta forte a parole e promesse, assai meno nei fatti.
Una buona notizia invece, sempre il 26, l’ha data una istituzione gloriosa, il Metastasio di Prato, che coraggiosamente ha reso nota la decisione di «ricalibrare» il proprio pubblico, di cui con una alta tradizione era il rifugio sicuro per tutta la Toscana, e non solo. Terminato il mandato del direttore Franco D’Ippolito, è stato scelto Massimiliano Civica, regista e non manager: un cambiamento sensibile, si vedrà quanto «indolore» per gli spettatori, che punta decisamente su una spettacolarità più contemporanea. E non per mera differenziazione anagrafica degli artisti, ma per la scelta di privilegiare nuove parole e diversi linguaggi spettacolari nei diversi spazi. Una scommessa coraggiosa e in «controtendenza», di cui sarà utile per tutti vedere i risultati.

QUELLO DELLE «NOMINE» pubbliche della scena resta il capitolo più scabroso, qualunque sia il governo.
I grandi festival riconosciuti (e ben finanziati) annunciano brochure assai ricche di programmi, ma da verificare. Il Festival di Napoli (diventato Campania festival, forse in omaggio al suo governatore) ha una pletora di titoli smisurata, in cui perdersi. Il festival di Spoleto, al di là delle garanzie musicali offerte da Santa Cecilia, spara grandi titoli e nomi, ma i migliori si rivelano versioni filmate. Infine gli stabili, i cui cda hanno dato in questi mesi spettacolo deprimente. Ora resta solo Ert, una istituzione un tempo di livello molto alto, anche all’estero. Dopo molti mesi di estenuanti selezioni e rose passate al setaccio (si immagina della politica, nella gloriosa Emilia) ora i candidati finali paiono tre: un attore noto per le fiction tv, una studiosa di ambito Dams, uno specialista di istituzioni musicali. Mai qualcuno che il teatro, la sua vita e il suo mercato conosca: tra i dieci o undici finalisti ce ne sarà pure qualcuno, o qualcuna, che abbia ben lavorato. Come diceva l’ex segretario Zingaretti, le correnti fanno vergogna nel Pd.