L’ennesimo efferato femminicidio lascia ancora una volta la sensazione nitida di un omicidio evitabile. Perché troppo spesso in tanti sanno ma non intervengono. Lasciano che il tempo scorra inesorabile pensando che alla fine tutto si possa risolvere in meglio. Perché troppo spesso non si fa attenzione ai piccoli dettagli, oppure si chiude un occhio per non essere invadenti e lasciare la giusta libertà agli altri. Ma quando si è di fronte a segni evidenti e inconfutabili di disturbi e violenza, di maltrattamenti e soprusi, intervenire diventa un dovere morale.

Del resto, oltre alla denuncia che Noemi aveva sporto con la madre qualche settimana fa in tanti erano a conoscenza delle violenze subita dalla giovane 16enne. Come il cugino Davide, che ieri ai giornalisti ha dichiarato che diminuisce, se ti confronta, se ti fa sentire piccola. Il fidanzato di Noemi «era possessivo e geloso, non voleva che mia cugina vedesse altre persone, la picchiava. Il giorno della denuncia aveva ancora i segni della violenza sul volto, ma non è stato fatto nulla».

Sulla stessa lunghezza d’onda il nonno della vittima, che ha detto che «bisognava intervenire prima. Bisognava allontanarlo prima, rinchiuderlo in una casa di cura». Parole che non lasciano alcun dubbio sul contesto sociale in cui questa triste storia è assurta agli onori della cronaca nera nazionale. Nonno Vito, ai microfoni di Telenorba, si è lasciato scappare anche una frase inquietante: «Io penso che il lavoro non l’abbia fatto da solo». E alla fine ammette di aver immaginato questo epilogo negli ultimi giorni: «Dopo tanti giorni che non avevamo notizie – dice – cose buone non ne potevano venire. Anche il fatto che a casa c’era il suo cellulare non era una cosa buona. Abbiamo subito avuto sospetti nei confronti del fidanzato».

In realtà era stata la stessa Noemi, lo scorso 23 agosto, a lanciare una sorta di richiesta di aiuto dal suo profilo Facebook. Pubblicando un post con un’immagine dove appare il volto tumefatto di una ragazza alla quale una mano di uomo tappa la bocca. Sul polso dell’uomo un tatuaggio con la scritta «Love» e un punto interrogativo. Nel post si legge: «Non è amore se ti fa male. Non è amore se ti controlla. Non è amore se ti fa paura di essere ciò che sei. Non è amore, se ti picchia.

Non è amore se ti umilia. Non è amore se mente costantemente, non è amore se ti nome è abuso. E tu meriti l’amore. C’è vita fuori da una relazione abusiva. Fidati!». Parole che forse la stessa Noemi voleva dedicare a se stessa, per darsi forza e coraggio nella decisione di chiudere una relazione oramai giunta ad un punto di non ritorno.

Una storia, quella di Noemi, che alla lontana ricorda quella di Sarah Scazzi, uccisa sette anni fa per gelosia dalla zia e dalla cugina ad Avetrana, nel tarantino. Tante le analogie: entrambe adolescenti, pugliesi, scomparse tra fine agosto e settembre e ritrovate morte tutte e due nelle campagne vicino casa: Sarah in un pozzo, Noemi seminascosta da dei massi vicino a un pozzo. E anche in questo omicidio c’è il coinvolgimento di un adulto parente stretto dell’assassino. Per

Noemi però, è ancora presto per sapere cosa sia realmente successo, se quel ragazzo «difficile», già noto alle forze dell’ordine, in cura al Servizio per le tossicodipendenze, sia realmente l’autore dell’omicidio, come confessato da lui stesso e se abbia fatto tutto da solo: in serata era ancora in caserma per un nuovo interrogatorio. Le accuse sono di omicidio volontario a cui potrebbe aggiungersi il reato di occultamento di cadavere.