E’ possibile affermare il valore sociale di un ortaggio, un legume, una mela della Val di Non o un antico grano del Cilento? Come fare perché il ritorno alla terra non sia un paradigma neotradizionalista, velleitario per giunta in un paese che ha dismesso i saperi agricoli e consegnato il suo suolo all’edilizia casalinga o palazzinara? È possibile riorganizzare una resistenza intorno a ciò che abbiamo perduto e su quali basi? Ai tempi dell’Unità l’Italia era un paese per il 90 per cento agricolo e ancora nel 1943, ricorda Vezio de Lucia nel suo Nella città dolente, un bombardiere della Raf avrebbe sorvolato un Paese semi-intonso. Oggi che non è più così e una crisi economica e allo stesso tempo ecologica e antropologica sembra non lasciare vie d’uscita, spuntano come funghi movimenti neoruralisti e territorialisti, nuovi contadini rivendicano il diritto a coltivare i terreni pubblici incolti, economie nel segno della condivisione provano a contrapporsi all’io neoliberista dilagante, Gruppi d’acquisto solidale decidono di «votare con il portafoglio» e giovani attivisti sfidano intimidazioni e attentati lavorando sui terreni confiscati alle mafie. Sono le Bioresistenze di cui parla un libro a più voci, con tanto di reportage fotografici (a cura di Guido Turus, Esedra editrice, pagg. 207), frutto di un progetto politico-editoriale promosso dal Movi (Movimento per il volontariato italiano) e dalla Cia (Confederazione italiana agricoltori).

Già l’Economist nel 2012, ricorda Roberta Carlini, aveva dedicato un lungo servizio all’ «ascesa dell’economia della condivisione», e Alessandra Guigoni mostra come la «ricontadinizzazione», vale a dire il fenomeno del ritorno all’ovile di figli e nipoti della società contadina, sia un processo europeo che si oppone alla globalizzazione ma si scontra con le mutazioni avvenute nel frattempo: la mancata trasmissione dei saperi, innanzitutto, e poi il processo di deterritorializzazione dell’agricoltura già descritto dal sociologo Corrado Barberis nel 1972. In questo senso, il recupero della ruralità, di quei saperi «di lunga durata» come li avrebbe definiti lo storico Fernand Braudel, di quell’«ancestrale sapienza» che spaventava un sociologo americano incontrato dallo storico dell’arte Riccardo Musatti alla fine degli anni ’50 in Le vie del Sud (appena ripubblicato da Donzelli, a cura della Fondazione con il Sud, pagg. 162, euro 19), può presentarsi come una forma di «resilienza contadina».

Fin dalle sue origini Slow Food ha mirato a trasformare la biodiversità alimentare in «strumento di liberazione», come sostiene Carlo Petrini in Cibo e libertà (Giunti, pagg. 185, euro 12), andando a rispolverare antiche sapienze abbandonate e restituendo loro dignità, come un archeologo farebbe di fronte a una novella Pompei: «La diversità, il trionfo del poli contro il mono, sta cambiando il mondo in maniera più veloce di quanto potessimo immaginare», scrive il fondatore del movimento che si è contrapposto alla cultura del fast food. È quel che provano a fare i «nuovi contadini» che agiscono nel segno del «noi».
«Tutto è già ricominciato, senza che lo si sappia», scriveva Edgar Morin su Le Monde nel 2010. In effetti, i dati dicono che si tratta di un fenomeno sempre meno di nicchia, pur se la grande industria agroalimentare continua a farla da padrona. Tra il 2011 e il 2012, fa sapere un rapporto commissionato dal Ministero delle politiche agricole al Sistema d’informazione nazionale sull’agricoltura biologica (Sinab) e all’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare (Ismea), il territorio a coltivazione bio è cresciuto del 6 per cento: si tratta di quasi 200 mila ettari di terreno convertiti a pascoli, foraggio, cereali e olivicoltura ecosostenibili. Gli operatori certificati sono 49.709, la maggior parte si trovano al sud (settemila nella sola Sicilia), anche se a mangiare biologico è soprattutto il nord (il 73 per cento).

Inoltre, nei primi cinque mesi del 2014 i consumi biologici in Italia sono cresciuti del 17,3 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e di conseguenza gli addetti del settore sono aumentati del tre per cento. Il prodotto più acquistato sono le uova (il 9,5 per cento della spesa totale). Senza considerare la possibilità di esportare: l’attenzione al cibo «buono, pulito e giusto» è in aumento in tutto l’Occidente. In Germania, il paese europeo con il più alto consumo di prodotti bio, le previsioni parlano di un’ulteriore crescita entro il 2019: più nove per cento. È per questo che l’Associazione italiana per l’agricoltura biologica (Aiab) parla di vera e propria «rivoluzione»: «Agricoltori e cittadini stanno cambiando assieme il modo di produrre e consumare cibo e le politiche non possono che prendere atto e adattarsi al mutamento». Hanno cominciato alcune regioni (da ultima la Puglia di Nichi Vendola), che hanno approvato leggi per sensibilizzare la popolazione, sostenere e incentivare la formazione di operatori e il consumo di prodotti del commercio equo e solidale anche negli enti pubblici. Ma si attende ancora una vera svolta «verde» nelle politiche nazionali.