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Tradizione classica Ritrovare il significato delle parole, della memoria culturale e dei libri minacciati dalla smaterializzazione digitale: Benedetta parola (il Mulino), riflessione «senecana» di Ivano Dionigi

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 31 luglio 2022

Strano tempo, il nostro. La civiltà vacilla sotto piaghe antiche (a fame, peste, bello, libera nos…), ma resiste la tentazione di coltivare il proprio orto, come se niente fosse. Così sono rappresentati i nobili al principio dell’Andrea Chenier: allontanata la minaccia delle plebi, riprendono la loro gavotta, danzando inconsci verso la ghigliottina che li distruggerà. Similmente, c’è chi riduce il problema del libro alla natura del supporto (Naomi S. Baron, Come leggere. Carta, schermo o audio?, Raffaello Cortina): invece urge ora capire che cosa stia nei libri, e non in quale forma circolino e siano venduti. Per andare oltre i fattori sovrastrutturali, servono un ragionamento più profondo e una visione ampia sul destino della cultura nel nostro presente. È quanto propone, con pacata dottrina, il latinista Ivano Dionigi in Benedetta parola La rivincita del tempo (il Mulino «Intersezioni», pp. 184 € 15,00).

Il punto di partenza, come in alcune lettere di Seneca a Lucilio, è in un piccolo evento personale: l’aver ricevuto l’inattesa donazione di una grande collezione di classici greci e latini. L’accoglienza data in casa a 1640 volumi (pur di piccola taglia: la Loeb Classical Library) apre una riflessione sul posto che quei libri avranno, e di là sul senso e il valore della loro presenza. E va subito detto che se un’offerta simile fosse fatta oggi a talune biblioteche, la risposta sarebbe una indicazione di smaltimento differenziato, trattandosi di libri con latino e, ne scàmpino gli dèi, persino greco antico. Ma quei libri sono stati destinati a un classicista, che da essi trae riflessioni che rivelano l’uomo di cultura. Anzi, il filologo, ossia il dicti studiosus, come diceva Ennio, non già il parassitico e superfluo erudito, come giudicano oggi anche talune istituzioni che stanno affossando per sempre gli studi umanistici in Italia.

I temi su cui ragiona Dionigi sono il senso della parola, della memoria, dei libri. Sofisti e retori, aedi e storici, poeti e scrittori antichi forniscono il materiale, presentato con tono leggero, ma senza scorciatoie divulgative «per la truppa». Né il libro contiene lamenti professorali sulla decadenza, o elogi del tempo che fu. Ciò che l’autore con passione promuove non è il ritorno, bensì il mantenimento di un orizzonte culturale gravemente minacciato e, nella sua attuale fragilità, per certo privo di «dispositivi di protezione»: perciò rischia a breve di soccombere al presentismo. Chi ama il mondo antico sa quanto il tempo sia edax, pronto a divorare ogni cosa, e sappia far sparire persino la memoria. Circa dieci anni or sono Umberto Eco poteva ritenere che il compito di guidare alla preservazione dei fondamenti culturali di un paese spettasse «solo alle Università (e più in generale alle istituzioni di formazione)». Posizione ottimistica, osserva Dionigi. L’accelerata svolta digitale e la pandemia hanno precocemente invecchiato questa prospettiva, al momento non sostituita da altro, che non sia il confuso magma della rete, in assenza di bussole a orientare nella navigazione. Qui è però il posto del libro: nel rivendicare, anche contro la sbrigativa logica binaria (vero/falso, sì/no, like/dislike) l’urgenza di una riflessione profonda e sfaccettata, aperta verso la complessità del reale.

Di qui l’analisi delle parole (etimologia compresa), il dialettico confronto con le memorie passate e l’alimento consapevole dei libri. In un mondo che riconosce valore (in ogni senso) solo al nuovo, il concetto stesso di tradizione è divenuto problematico. Giacché un upgrade periodico azzera il pregresso, rendendolo inservibile come un pc di vecchia data, l’unica tradizione di cui si tollera oggi l’esistenza è quella che non disturba e che permette un guadagno di vendita. La costruzione di una identità culturale è perciò un lusso improduttivo che presto non sarà più permesso.

I tre assi della riflessione di Dionigi affrontano sfide oggi drammatiche: la parola alle prese con la vuotezza del vaniloquio, la memoria di fronte alla plasticità di un dato rinegoziabile, i libri confrontati con la smaterializzazione del digitale. Tutti e tre gli ambiti sono stati segnati pure dalla pandemia, e pesantemente. Basta pensare alle biblioteche. Tra le limitazioni di orario e accesso e la mancata trasmissione ai più giovani, esse rischiano di divenire una nicchia come i cinematografi, perdendo il ruolo di luogo esperienziale. Quanto ai libri privati, Seneca e Luciano ammonivano contro la vacuità dei bibliomani ignoranti, e però la gigantesca raccolta privata di Eco è rimasta nella memoria di molti. Ma è ormai chiaro che i moderni clerici nomadi difficilmente potranno gestire patrimoni monaldeschi, i quali saranno malamente pareggiati con le volatili forme virtuali oggi note, o altre che il futuro genererà.

Tra le parole qui studiate vi è anche libertas. Il concetto, per altro sfuggente, ha conosciuto negli ultimi anni nuove sfide. Viene ripensata la lucida analisi di Tacito, che capì come in una certa fase di Roma la libertas fosse divenuta un’alternativa incompatibile con la pax, ossia la sicurezza, e si era scelta la seconda. La questione si è riproposta ai giorni nostri, in forme non meno drastiche, seppur con esiti impensati («preferiamo la pace o il termosifone, anzi il condizionatore acceso?»). È vero che la parola, potente strumento, può servire a spegnere le guerre (come anche a scatenarle), ma tale compito è divenuto arduo, in un tempo nel quale sapere e potere sono stati nettamente separati (p. 135). La fiducia ciceroniana che la dialettica politica possa sostituirsi alle armi (cedant arma togae) appare appannata molto, certo anche per inadeguatezza di chi dovrebbe reggere il lato politico. Intendiamoci: può essere che i filosofi al potere non abbiano dato gran prova di sé nei secoli passati, ma la loro presente sostituzione con la finanza ha garantito l’età dell’oro solo ai pochi che già possedevano l’oro stesso.

Ivano Dionigi, con il taglio razionale del suo discorso, suggerisce fiducia nel futuro. Nato nel 1948, egli appartiene una generazione che conobbe la formazione umanistica «piena», prima della demolizione pedagogico-ideologica, e che ne avviò poi la messa in discussione, consegnandoci uno studio dell’antico serio e però non classicistico, aperto alle sfide della contemporaneità. Oggi però sopravvivono pochi poli capaci di proporre un approccio profondo e vivo al mondo greco-romano. Essi formano del resto giovani classicisti destinati a insegnare in atenei esteri, essendo i dipartimenti letterari in Italia condannati a morire d’inedia, e i licei avviati a una più o meno rapida liquidazione. Tra un banco a rotelle, una mediana e un «quadro di riferimento», la tradizione degli studi classici rischia davvero di spezzarsi. Quando ciò accadesse, si diranno allora le parole di Tacito: quotus quisque reliquus, qui [litterarum] rempublicam vidisset? Si penseranno, quelle parole, sempre che si voglia e sappia tenere in vita la conoscenza del latino, evitando che esso divenga presto, per tutti e tutte, una lingua aliena come l’etrusco.

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