Tutto quello che nel discorso di fine anno del Presidente Mattarella era solo accennato come augurio – «…il nostro bel Paese, proteso nel Mediterraneo e posto, per geografia e per storia, come uno dei punti di incontro dell’Europa con civiltà e culture di altri continenti…» – nel giro di 48 ore è stato bombardato. Quel Mediterraneo si affaccia su un mondo in guerra e quella nuova guerra ormai ci coinvolge. Prima è arrivata la decisione della Turchia di inviare truppe in Libia – in frantumi dopo la scellerata impresa della Nato che ha abbattuto Gheddafi nel 2011 – in appoggio al «nostro» alleato Serraj.

A capo di un governo «riconosciuto dalla comunità internazionale», che governa solo parte della Tripolitania ed è insediato a Tripoli, ora sotto assedio del leader della Cirenaica Khalifa Haftar, il generale appoggiato da Egitto, Francia, Russia e Stati uniti; e ieri notte ha fatto il resto il drone del gangster internazionale, il «pazzo atlantico» Donald Trump che, alle strette interne con l’impeachment e preoccupato dei destini elettorali, sulla pista dell’aeroporto di Baghdad ha spostato l’attenzione, uccidendo il generale iraniano Soleimani, il leader in pectore di Teheran (responsabile tra l’altro d’essere stato tra i pochi a combattere davvero lo Stato islamico e al-Qaeda) e l’alleato iracheno dell’Iran al-Muhandisi.

Il Medio Oriente è sull’orlo del precipizio, ancora una volta su iniziativa dell’Amministrazione Usa come per i passati quaranta anni nel lavorio scoperto di destabilizzare ogni Stato mediorientale: dagli anni Ottanta, prima istigando Saddam al conflitto armato contro il regime degli ayatollah, poi con la prima guerra del Golfo nel 1991, poi con la seconda e la strategia delle sanzioni che hanno affamato l’intero popolo, poi nel 2003 con la guerra inventata di Bush sulle «armi di distruzione di massa» che non c’erano, e infine, dopo il colpo riuscito in Libia, con la devastazione malriuscita della Siria.

Sempre con il sostegno di quei governi israeliani che, cancellata con l’assassinio di Rabin e il seppellimento di Arafat ogni possibilità di risoluzione pacifica della questione dei territori palestinesi occupati, si sono esercitati in omicidi altrettanto mirati e nella provocazione a Teheran come ha ripetutamente fatto Netanyahu, perfino bombardando centinaia di volte le forze militari iraniane e quelle di hezbollah impegnate in Siria contro Isis e al-Qaeda (quella dell’11 settembre, per intenderci), vale a dire contro l’integralismo sunnita ispirazione dell’alleato d’acciao di Usa ed Europa, l’intoccabile Arabia saudita. Con questo nuovo omicidio mirato viene bombardato anche quel poco che rimaneva in piedi dell’accordo dell’Unione europea, voluto anche da Obama, sul nucleare civile di Teheran.

Ora non si potrà più girare lo sguardo da un’altra parte, magari sulle magnifiche sorti di tal Paragone. Non c’è paragone che tenga. La risposta di rappresaglia se non subito, ci sarà. E l’Italia rischia stavolta di stare in prima linea: qualcuno ricorda che abbiamo un nostro contingente Onu in Libano, schierato tra hezbollah ed esercito israeliano alla frontiera?

Per questo, di fronte alla portata della provocazione che scompagina i già delicati equilibri del mondo – come accusa il ministro degli esteri francese – mentre si comprende il plauso a Trump del suprematista Matteo Salvini, non possono certo bastare il silenzio del presidente Conte, il «Giuseppi» di trumpiana memoria, né gli appelli del ministro degli esteri Di Maio prima con il timido invito «alla moderazione» e poi con l’esplicita e giusta memoria che in Medio Oriente «la priorità è la lotta allo Stato islamico»; tantomeno basta la «grande preoccupazione» sussurrata in un tweet dal segretario Pd Zingaretti. Se non altro negli Usa il moderato e discusso candidato democratico Joe Biden ha avuto almeno il coraggio di dire che così facendo «Trump ha gettato dinamite in una polveriera». Urge una netta presa di posizione che dichiari la distanza dell’Italia dalla nuova stagione di guerra che si affaccia appena di là dal Mediterraneo.

Non basta più nemmeno insistere che la soluzione in Libia deve essere di pace. La guerra degli omicidi mirati dei droni, della quale ieri notte abbiamo avuto una sanguinosa esemplificazione, dice che il Belpaese è sempre più una piattaforma armata protesa verso il Medio Oriente. Il governo italiano dichiari che le «nostre» basi militari, quelle Usa ma anche quelle Nato, a cominciare da Sigonella, non siano impegnate o minimamente coinvolte in questa pericolosa avventura americana. Perché l’attacco di Trump di ieri notte ci chiama in causa.

Se infatti possiamo escludere, stavolta, il coinvolgimento diretto nell’azione di lancio dalla base di droni di Sigonella, perché più credibilmente si sono serviti di basi in Iraq, Kuwait, o in Yemen, resta pur vero invece che ieri notte la conoscenza dell’atto di guerra che si è consumato a Baghdad, a Sigonella è stata più che scontata: lì ieri notte hanno operativamente seguito e lavorato per la «buona» riuscita del raid ordinato da Trump. E senza che il governo italiano e nessuno di quelli europei fossero informati. Ormai Erdogan, il Sultano atlantico, è inaffidabile per gli Usa com’è inaffidabile la base strategica turca di Incirlik.

Sigonella – già coinvolta nella guerra in Libia e più recentemente in operazioni di intelligence nel Mar Nero per la crisi ucraina – è invece diventata da un anno con Ramstein in Germania, il centro di controllo operativo di ogni operazione armata di droni nel mondo. È così vero che in Germania la Corte costituzionale ha dato parere favorevole ai processi contro Berlino intentati dalle famiglie delle vittime civili uccise dai droni in Afghanistan. L’Italia sussurra e tace sul padrone del drone, e chi tace…