Con una carriera trentennale alle spalle, numerosi premi e riconoscimenti ottenuti (tra cui il Premio Imperiale del Giappone per la scultura nel 2015), Wolfgang Laib (1950) è oggi uno degli artisti più noti al mondo. Dopo la laurea in medicina all’Università di Tubinga nel 1974, Laib sceglie però di dedicarsi all’arte: la scienza medica non è adatta al giovane che vuole sperimentare nuove forme espressive, connesse in particolare con le filosofie orientali e la pratica zen. Nel 1975 realizza il primo Milkstone: una lastra di marmo bianchissimo il cui centro è leggermente incavato, così da accogliere il latte che Laib vi versa. Il sottile contrasto tra il candore del marmo e quello del liquido crea un gioco di equilibri e di tensioni tra due così diversi elementi.

La raccolta del polline

Inaugurata sin dai suoi esordi, la riflessione sulla scelta dei materiali costituisce uno dei cardini della sua arte. Nel 1977 inizia a raccogliere il polline: elemento naturale, che richiede un infinito esercizio di pazienza per essere accumulato, diverrà uno dei media attraverso i quali Laib darà vita a opere assai suggestive, come la spettacolare installazione al MoMA di New York (2013). L’intrinseca natura effimera di questo pulviscolo preziosissimo che, a lungo andare, si disperde nell’ambiente e sparisce, se da un lato può far venire alla mente i mandala di sabbia colorata dei monaci tibetani, destinati alla distruzione nell’istante stesso in cui vengono completati, dall’altro diventa anche un modo per riaffermare la transitorietà della creazione artistica, la sua instabilità rispetto al mondo che la circonda. La pratica, che non si potrebbe immaginare più zen, di raccolta, accumulo e conservazione del polline – durata decenni – invita anche a riflettere sui tempi lunghi della creazione, sulla sua dimensione meditativa e intima.

All’inizio degli anni ottanta i viaggi in estremo oriente, dall’India alla Cina, da Sumatra a Hong Kong, acuiscono la sensibilità di Laib verso questi problemi. Da qui nascono i Rice Meals e le Case di Riso. Via via il ventaglio delle scelte si amplia. È del 1988 la prima stanza in cera d’api, per una mostra alla Hamburger Bahnhof di Berlino: diverrà uno dei materiali utilizzati con più versatilità dall’artista nel corso dei successivi decenni.

Proprio di cera d’api sono fatte le sei barche che, fino al 7 giugno, sono esposte nella chiesa di Santa Maria della Spina a Pisa. Somewhere Else – questo il titolo dell’installazione – è il primo di una serie di interventi site specific che verranno presentati nella chiesa toscana da artisti italiani e non. Curata da Laura Mattioli, in collaborazione con il Comune, l’Università degli studi, la Scuola Normale e la Galleria Michela Rizzo, l’installazione di Laib si inserisce in un ambiente carico di significati storici e molto meno ‘neutro’ rispetto, per esempio, a quello delle sale di una galleria. Eretta nel Duecento e poi ampliata negli anni venti del Trecento, la chiesa subì moltissimi restauri a causa del cedevole terreno su cui era costruita, a ridosso del greto dell’Arno, finché alla metà degli anni settanta dell’Ottocento venne smontata e rimontata in un punto più alto. La piccola architettura è uno dei gioielli del Gotico toscano, che deve il suo nome al fatto che in essa venne custodita (dal 1333) una spina della corona imposta a Cristo durante la Passione. È questo un aspetto significativo: la chiesa era un prezioso reliquiario che proteggeva/conservava, prima dello spostamento, la preziosa reliquia.

Come in altri casi (basti pensare alla Sainte Chapelle di Parigi che, oltre a essere cappella palatina di Luigi IX, conservava diverse fra le più sacre reliquie della cristianità) questi edifici hanno assunto nel corso dei secoli uno specialissimo valore in virtù del loro essere in un certo senso dei sancta sanctorum; una dimensione che oggi si fatica a immaginare o ricostruire. Si innesca così un cortocircuito fruttuoso con l’opera di Laib. Le barche, scrive l’artista, «sono il simbolo di un viaggio, non di un viaggio fisico, ma un viaggio verso l’altra sponda»: è dunque un percorso interiore quello sul quale ci sollecita a riflettere quest’opera, il viaggio estremo, l’ultimo. «Quello che faccio non è solo qualcosa da guardare e non voglio usare la chiesa semplicemente come un’ambientazione», continua Laib. A questo fine l’artista e la curatrice hanno chiesto di ricollocare la reliquia della Spina nella chiesa in modo da includerla nell’«opera», e per donare a quest’ultima un ulteriore, alto significato spirituale.

Colore caldo e avvolgente

Per l’inaugurazione, quasi fosse una pratica cerimoniale, Laib ha collocato sulla più grande delle sculture una piccola montagna di polline, a dare un surplus di esperienza spirituale e a suggellare quel momento. Entrando nell’ambiente della Chiesa della Spina si è innanzitutto sollecitati a leggere l’opera nel suo rapporto con l’architettura: le barche di cera creano una sorta di inaspettato effetto straniante, risemantizzano lo spazio e obbligano lo spettatore a fare i conti con questo problema. La cera, dal colore caldo e avvolgente, che sprigiona un inebriante profumo che pervade l’ambiente, sembra quasi opporsi al biancore del marmo. Le barche, di differente grandezza e altezza, disegnano dei percorsi nuovi nello spazio dell’edificio. Come ha spiegato la Mattioli, una parte importante dell’opera sta nel ‘silenzio’ con il quale il visitatore dovrebbe ammirarla: è un invito al raccoglimento e alla riflessione.

La pulizia formale del lavoro di Laib si accorda in modo perfetto con l’ambiente che lo contiene, in un gioco sottile di accordi e contrasti. Le forme archetipiche, semplici eppure altamente significanti, usate da Laib anche in altre occasioni – si pensi alla grande Zigguratt, anch’essa in cera d’api, allestita alla Fondazione Merz nel 2009 – vengono arricchite dal dialogo con la dimensione storica dell’architettura che le contiene, in una dimensione di continuo scambio e reciproco arricchimento.