C’è da credere che ai piani alti di Chevron e Royal Dutch Shell stiano seguendo con estrema attenzione l’evoluzione della situazione in Ucraina. Più peggiora, più le due compagnie, tra i colossi mondiali dell’energia, possono vedere i loro investimenti andare in fumo. In tempi recenti hanno dirottato parecchi soldi nell’ex repubblica sovietica e hanno siglato contratti dal potenziale valore di dieci miliardi di dollari nel settore dello shale gas. Si tratta dei due più grandi investimenti mai realizzati, in Europa, in questo comparto.

Perché sono stati effettuati in Ucraina? Pare che nel sottosuolo dell’ex repubblica sovietica ci sia quantità straordinaria di gas di scisto. Tale da rendere il paese indipendente a livello energetico. Viktor Yanukovich, nell’ultimo scorcio della sua stagione, aveva cercato di sfruttare la cosa, aprendo la porta a chiunque volesse fare affari: russi, cinesi, europei, americani. Royal Dutch Shell e Chevron sono giunte in Ucraina quasi nello stesso istante. La prima ha ottenuto lo scorso settembre i diritti di sfruttamento nel bacino di Yuzivska, nella regione di Donetsk, nell’est del paese. Chevron, due mesi dopo, ha iniziato le esplorazioni nell’area di Oleska, nei dintorni di Leopoli. È la principale città dell’ovest del paese, nonché la roccaforte storica del nazionalismo ucraino e di uno dei partiti che lo interpreta da posizioni più di destra: Svoboda.

È proprio Svoboda uno dei possibili bastoni che potrebbero inceppare le ruote sia di Chevron che di Royal Dutch Shell. Gli ultra-nazionalisti, quando Yanukovich ha dato il via libera agli accordi con i due gruppi occidentali sullo shale gas, hanno lanciato una campagna volta a contrastare le trivellazioni. Tra chi ha coordinato questa iniziativa, sfociata in diverse proteste, c’è Andriy Mokhnyk, il nuovo ministro dell’ambiente e delle risorse naturali. Non si sa ancora se, ora che è al governo, modererà la sua posizione sullo shale gas.

Al di là di questo, Chevron e Royal Dutch Shell tengono un occhio aperto anche sulla situazione complessiva del paese. Che è pessima. Solo il massiccio piano di aiuti elaborato dall’Ue, a cui seguirà il Fondo monetario internazionale, possono tenere a galla Kiev. Nel corso degli ultimi due anni parecchi investitori occidentali hanno tolto il disturbo e chi ancora opera a Kiev potrebbe è incerto sul da farsi, davanti a uno scenario che registra un ragguardevole deficit, sia pubblico che delle partite correnti, un prodotto interno lordo che ristagna da due anni, una moneta – la hryvnia – che perde ogni giorno valore e l’aumento dei mutui non performanti.

Veniamo alla banche, che sono in preda a una sindrome da fuga, dopo che prima della crisi si fiondarono a Kiev e si misero a comprare tutto quello che gli oligarchi – titolari di circa il 70% del comparto – avevano deciso di lasciare sul mercato. Allora l’Ucraina cresceva a ritmi importanti e pareva che le cose sarebbero andate sempre meglio. Poi sono arrivate le crisi: quelal globale e quella politica. Raiffeisen, grande banca austriaca, protagonista di un’importante espansione a Est, iniziata già all’indomani del crollo del Muro, starebbe pensando di cedere la sua controllata, Bank Aval, il quarto istituto del paese. Venderla, in questo momento, significherebbe perderci parecchio. Pare che da Vienna vogliano uscire quanto prima dal pantano dell’Ucraina, dove l’esposizione, secondo il sito ungherese di finanza Portfolio.hu, è arrivata a 4,5 miliardi di euro. Non rovina di certo l’istituto, ma è meglio disfarsene: questo il ragionamento.

Anche a Unicredit starebbero pensando lo stesso. L’istituto di piazza Cordusio è meno esposto (poco più di 2 miliardi), ma le turbolenze politico-economiche che stanno sballottando l’Ucraina indurrebbero alla ritirata. Da mesi filtra la notizia che l’ad Federico Ghizzoni starebbe cercando acquirenti, ad ora senza successo, per la controllata Ukrsotsbank. Al contrario, Intesa San Paolo è riuscita a cedere Pravex. La pagò 500 milioni, l’ha (s)venduta a meno di cento all’oligarca Dmytro Firtash. E pure per Gazprom, non mancano le grane.