La realtà e l’entità del cambiamento climatico non paiono essere più in dubbio presso le maggiori istituzioni mondiali, persino da quelle che meno vengono indicate come inclini all’ecologismo.
Recentemente le agenzie di intelligence statunitensi hanno mostrato grande preoccupazione per il tema in termini di impatto sulla sicurezza nazionale in un mondo con crescenti conflitti, migrazioni climatiche, competizione per le risorse in un più sintetico rapporto divulgato lo scorso ottobre.

Anche il mondo della finanza mostra di occuparsi della questione. È passato quasi completamente sotto silenzio una interessante iniziativa promossa dalla Banca di Francia, o meglio dalla ACPR (Autorité de contrôle prudentiel et de résolution), un organismo ad essa associato. Si tratta di un tipo particolare di stress test. In generale con tale termine si tratta di analisi delle banche introdotte dopo la crisi del 2007-08, volta a verificarne la solidità rispetto ad eventuali shock esterni, per minimizzare il rischio sistemico espresso da un qualche genere di crisi che abbattendo un po’ di banche dilagherebbe ovunque, mettendo a terra l’economia generale.

In questo caso invece le autorità regolative francesi hanno dispiegato modalità di analisi direttamente volte ai rischi determinati dal cambiamento climatico. Coinvolge 9 gruppi bancari e 22 organismi assicurativi, includendo quindi circa il 75% dei portafogli assicurativi e l’85% di quelli bancari.
Mentre gli stress test sono normalmente qualcosa di simile ad un esame severo, si tratta in questo caso di un processo molto più morbido ed amichevole; l’adesione era volontaria. Forse per questo i risultati alla fine sembrano abbastanza rassicuranti. In ogni caso è un tipo di valutazione assai complessa, che ha preso in considerazione diversi scenari di evoluzione delle condizioni climatiche e le varie possibilità che esse possano influire negativamente. La metodologia si concentra sui settori specifici: in caso di scenario A o B cosa accadrà all’industria chimica, alla metallurgia, e come la implicazione di banche e assicurazioni in esse può rappresentare un rischio. Appaiono assai più a rischio le assicurazioni, vista la prevedibile moltiplicazione di eventi calamitosi che farebbero lievitare il costo delle polizze, tagliando fuori di fatto alcuni settori, per tariffe troppo onerose.

Non si tratta di un esempio totalmente isolato: nella Ue si fa sempre più strada un approccio di regolazione dei settori finanziari che comprenda sempre di più il rischio climatico e che indichi quanto siano ecocompatibili gli investimenti.
Sono approcci di mercato che difficilmente arriveranno a reali cambiamenti. Si tratta infatti di forme di regolazione tutte interne al sistema; nel caso francese una sorta di consulenza amichevole, che nondimeno può essere positivamente considerato un segno che qualche brandello di verità filtra attraverso gli spiragli del sistema: gli istituti coinvolti non erano coercitivamente obbligati a mettere in mostra le loro debolezze (peccato terribile nel contesto di mercato) quindi quello che emerge è probabilmente solo una piccola parte dei rischi.

In ogni caso, nonostante le altisonanti dichiarazioni della Ue e le montagne di policies ambientali, tassonomie, documenti programmatici e green deal, resta il mercato come cardine del sistema, cioè la scelta dei privati su dove investire, e per esprimersi coi termini di Keynes si può portare il cavallo (gli investitori) all’acqua (le scelte ambientali) ma non si può obbligarlo a bere.
Infatti Moody’s a novembre scorso ci rivela che il settore finanza non sta… bevendo molto. Secondo una sua analisi le istituzioni finanziarie delle 20 principali nazioni continuano ad investire allegramente in attività ad alta emissione di carbonio, per una esposizione attuale di 22mila mld $: il 20% dei loro prestiti ed investimenti totali. Decisamente troppo.