Leggere Gli autonomi. Autonomia operaia a Genova e in Liguria. Parte prima (1973-1980), a cura di Roberto Demontis e Giorgio Moroni (DeriveApprodi, pp. 338, euro 20) è stato facile. Più difficile è parlarne, sperando di non essere troppo influenzato dall’amicizia che da una vita mi lega a Moroni e ad altri autori del volume. Classe 1951, mio formidabile compagno di banco del liceo, leader potoppista e autonomo, cofondatore dell’Archivio dei Movimenti, Moroni è ancora oggi più che mai sulla breccia come supermanager del settore assicurativo. Il suo «co-cospiratore» Roberto Demontis, classe 1960, è stato invece un giovanissimo militante dell’Autonomia operaia, poi tra i fondatori dell’Associazione Città Aperta, organizzatore delle mobilitazioni anti-G8 di vent’anni fa, educatore cooperativistico ed ex consigliere del Municipio Centro-Est genovese. Il secondo ha fatto al primo un’intensa intervista, lunga una cinquantina di pagine, almeno cinque volte la media degli altri contributi, che dà il tono al libro e ne costituisce uno dei due cardini.

È UNA RIFLESSIONE lucidamente appassionata, che tratteggia senza retorica o reducismi, e con una notevole dose di autocritica, l’intreccio fra l’esperienza personale, quella del gruppo politico di appartenenza, cioè delle «avanguardie nemiche del presente», come le chiama Moroni, e quella della società circostante. Ne esce ridimensionato lo stereotipo di Genova «città delle Br» e ne escono esaltate le tante piccole «controsfere pubbliche» (Carmine, Cas di Sampierdarena, Libreria di Porta Soprana, Collettivo di Balbi) che pure fra errori e ingenuità – che toccherà ai miei colleghi storici specialisti di anni Settanta e Autonomia operaia valutare e mettere in valore -, provarono a far sentire la loro voce. Cioè la voce dell’«altra società», delle periferie, dei tanti «non garantiti», dei dissenzienti e dei loro compagni di strada (il Collettivo Operaio Portuale su tutti), in una città fra le più precocemente e duramente colpite dai feroci processi di deindustrializzazione.

A questa ampia testimonianza, che non si nasconde gli errori di valutazione commessi, ma neppure la durezza della repressione che colpì Moroni e diversi suoi compagni nel corso del cosiddetto «7 aprile genovese», dà una mano considerevole il saggio di Flaviano Schenone, l’altro pilastro, e non solo per dimensioni (una quarantina di pagine) del volume. Allievo di Antonio Gibelli, col quale firmò un importante lavoro sulla Resistenza, ex formatore aziendale e insegnante, e, come me, operaista sostanzialmente estraneo alla vicenda dell’Autonomia in quanto organizzazione, Schenone ha il necessario distacco critico per incastonare tale vicenda sullo sfondo socioeconomico della Genova dell’epoca. Ne esce una densa storia di inarrestabile, ma non innocente, declino, demografico ed economico. Un declino che si è portato via, negli anni successivi, con un quarto della popolazione, un significativo patrimonio tecnico e produttivo incentrato, ma non solo, sul sistema delle Partecipazioni Statali, fra l’afasia crescente dell’establishment politico (a lungo a trazione Pci nell’età considerata) ed economico locale.

SU QUESTA BASE strutturale si stagliano le tante, ricche voci dei protagonisti di una stagione di lotte e mobilitazioni, minoritarie e pulviscolari, ma non per questo meritevoli di oblio, strette com’erano in una città chiusa su di sé e cronicamente orfana della realtà e del mito dell’operaio-massa. Sono una quindicina, di dimensioni diverse, ma tutte entro la ventina di pagine: da quella dell’ormai affermato studioso di letteratura al di là dell’oceano Marco Codebò sul nucleo sampierdarenese; a quelle, vibranti e generose, di Lella Castaldo ed Elena Guaraglia, sul Collettivo autonomo femminista sempre di Sampierdarena. A quella del fisico, scienfictionista e ciclista indomabile Nico Gallo su «periferie, autonomie, librerie e cortei». A quella dello spezzino (e occupante di Balbi ’72) Angelo Ciccio Del Santo. A quella dello studioso di fama globale Sandro Mezzadra, al quale la carta d’identità ha impedito di fare l’autonomo «storico», ma non di prendersi la rivincita con gli interessi negli anni Ottanta e Novanta e poi nella benemerita Associazione Città Aperta con e per i migranti.

UNA MIRIADE di testimonianze che mostrano come si possa uscire dal piancito di quel «vissuto», narciso, piagnucoloso e vittimista, che tanta parte ha nel declino culturale e politico del nostro Paese. Per restituire agli attori storici, per quanto lontani possano apparire oggi, nello specchio deformante della nostra età dei cloni e degli influencer, il ruolo che si sono ritagliati gridando, in tempi e circostanze difficili, qualche molto coraggioso «no».