Sarebbe piaciuto a Franco Fortini il nuovo libro di Mikkel Bolt Rasmussen Dopo il grande rifiuto. L’arte contemporanea sull’orlo della catastrofe (Agenzia X, pp. 149, euro 14). Fortini, evitando il livello sociologico, estraeva i caratteri sociali da quelli formali o istituiva fulminei parallelismi, tra estetica e contesto storico. Privilegiava inoltre un’arte utopica e antimimetica, un’arte che incorpora i riflessi dell’epoca nel prisma di una forma antagonistica e, brechtianamente, riteneva che la storia contenga molte storie: le tecniche apparentemente arretrate possono sempre tornare buone, e comunque l’arte può trasfigurare anche le contraddizioni che siamo costretti ad affrontare se vogliamo vivere «dentro e contro» la realtà.

L’ANALISI DEI NUOVI MODI di produzione si coniuga con la sperimentazione linguistica dando vita ad una scossa che trascende l’uso dell’arte per fini politici e che cambia il mondo perché cambia il linguaggio che lo racconta. «L’avanguardia necessaria», o «Il ritorno dell’avanguardia» questi potevano essere alcuni titoli alternativi per Dopo il grande rifiuto. Con il concetto ammuffito di avanguardia, Rasmussen ne ripropone anche un secondo ormai arrugginito, quello di rivoluzione. Non si tratta di fare del modernariato ideologico che arriva dopo il post-moderno, ma della necessità di un ripensamento partendo proprio dagli sbagli che i movimenti che hanno fatto propri questi concetti hanno spesso provocato nel corso degli ultimi secoli. Il libro muove dal punto di vista dell’arte visiva e dell’architettura, ma nello stesso tempo parla anche e soprattutto di politica, o meglio della possibilità, rileggendo le avanguardie del surrealismo e del situazionismo, di ristabilire il punto d’incontro in cui immaginazione estetica e sensibilità politica battono lo stesso ritmo, cospirano assieme. Si tratta perciò di un libro necessario per un urgente ripensamento. Finalmente un giovane teorico ripropone a movimenti politici e artistici di riappropriarsi di questa visione sincretica, anche perché «non vi lasceranno sperimentare nel vostro cantuccio», come ricordano Deleuze e Guattari.

Analisi del capitalismo e ricerca estetica, si diceva. Cosa c’entrano quindi i container con le archistar, si chiede Rasmussen, e si risponde usando una griglia marxista-fortiniana di interpretazione. Se queste ultime sono la rappresentazione della cultura postliberista e le loro opere una raffigurazione del capitalismo contemporaneo, il container è uno degli elementi più importanti nell’attuale fase di accumulazione globale. Il container ha reso possibile la ristrutturazione dell’economia mondiale con la delocalizzazione, così come le costruzioni delle archistar sono spesso «architettura pubblicitaria» – termine che Rasmussen riprende da Tafuri -, creazione di uno spazio in cui il nuovo capitalismo può condensare potere economico, tecno-scientifico, politico e culturale, diventando un aggregato verticale di potere. Rasmussen analizza un’opera paradigmatica in questo senso: lo stabilimento Bmw di Lipsia progettato da Zaha Hadid. Il container è l’invisibile elemento strutturale di quest’opera.
Procedendo nel testo, dopo aver percorso la storia travagliata di surrealismo e situazionismo, aver analizzato le relazioni ambigue tra il neoliberismo e l’arte contemporanea, l’autore si sofferma infine sulla funzione delle grandi mostre come Documenta e la Biennale e quindi sulle estetiche relazionali e l’arte militante.

NEL SUO PERCORSO di riproposizione critica dell’avanguardia, Rasmussen dimentica però di analizzare alcuni libri fondamentali per i temi che affronta: in particolare L’alienazione artistica, uno dei primi saggi di Mario Perniola, che studia il rapporto tra arte ed economia nell’Antica Grecia e nel Rinascimento, individuando in questi momenti le origini dell’alienazione della creatività che caratterizza la società borghese e capitalistica; e L’autodissolution des avant-gardes di René Lourau, che già nel 1981 ricordava come fu Saint-Simon ad applicare il termine avanguardia, a inizio dell’Ottocento, al campo artistico e come questa parola porti con sé delle idee-chiave: quella della strategia in una lotta da intraprendere, quella della rottura con l’istituto, il desiderio di andare oltre quest’ultimo, di superarlo definitivamente, e l’idea di una minoranza che porta avanti una verità e precede la maggioranza. Ma attenzione, intimava Lourau, questo desiderio di andare oltre – un andare oltre permanente che include la resistenza all’istituzionalizzazione – rende necessaria anche l’autodissoluzione. Dissolversi volontariamente prima di farsi recuperare con l’istituzionalizzazione del proprio movimento.