Sulla via del fango, il Presidente della Repubblica democratica del Congo si è messo in viaggio da Kisangani verso Rutshuru per indurre la miriade dei gruppi ribelli alla resa. Alcune settimane dopo la débâcle della coalizione M23 ad opera soprattutto della brigata d’intervento Onu, un convoglio di 70 auto blu accompagna il presidente Joseph Kabila e il ministro delle Infrastrutture nel loro primo viaggio in circa due decenni di conflitto nella ricca regione orientale del Kivu arrancando su strade fangose, con le guardie presidenziali costrette a scendere e spingere le macchine in una lunga litania di circa 930 chilometri. Fuori dalla capitale Kinshasa non esistono strade asfaltate, ma solo mota e mota in cui Kabila in questi giorni è rimasto più volte impantanato.

Eppure le iniezioni di aiuti da parte dell’Unione Europea erano abbastanza sufficienti da garantire almeno la costruzione di strade e infrastrutture di base. Ma così a quanto pare non è stato.

«Meno della metà dei programmi esaminati non hanno prodotto, o possono produrre, la maggior parte dei risultati attesi. La sostenibilità è una prospettiva irrealistica nella maggior parte dei casi». A sostenerlo è il rapporto finale della Corte dei conti europea su un audit dei fondi elargiti dall’Unione europea – 1,9 miliardi di euro – a beneficio e sostegno della Rdc tra il 2003 e il 2011. A leggere fra le righe, il responso è in altri termini il fallimento delle azioni di intervento europeo dovuto a una miope analisi del contesto territoriale e all’inconsistente impegno politico da parte delle autorità comunitarie. Né basta. Non solo l’Unione europea in quanto istituzione ha dimostrato tutta la sua inefficienza ma d’altro canto, le cronache ci dicono, importanti compagnie europee hanno contribuito più che alla risoluzione di endemiche realtà di dissesto economico e crisi umanitaria piuttosto al loro potenziamento. In nome del profitto.

Giorni fa la Weatherford International, una società di servizi petroliferi con sede in Svizzera, ha concordato il pagamento di una sanzione di più di 252 milioni dollari per risolvere un contenzioso con la Securities and Exchange Commission (Sec) «per aver autorizzato tangenti e viaggi impropri e di intrattenimento destinati a funzionari stranieri in diversi Paesi» tra cui il Congo.

Ancor prima, agli inizi di questo mese, la Svizzera ha aperto un’inchiesta sull’Argor-Heraeus, una delle più grandi raffinerie d’oro del mondo, per sospetto riciclaggio di denaro sporco e complicità in crimini di guerra, a seguito della denuncia della ong Trial che accusa la compagnia di aver lavorato quasi tre tonnellate d’oro acquistate da un gruppo armato nella Repubblica democratica del Congo, l’Fni – una volta attivo nella regione dell’Ituri del Congo orientale – che l’avrebbe estratto e venduto attraverso l’Uganda.

Se c’è un posto sulla faccia della terra dove si assiste giornalmente all’apoteosi delle politiche post-coloniali in Africa, questo è senza dubbio la Repubblica democratica del Congo. Lì, la regione orientale del Kivu è diventato in decenni di guerre il modello in scala dello sciacallaggio delle risorse delle ex colonie africane su cui si basa sostanzialmente gran parte della corsa all’aumento dei profitti da parte dei mercati occidentali nel campo dell’industria militare, dell’intelligence, del settore minerario e delle nuove tecnologie.

Con lo sfruttamento continuo del sottosuolo, il mantenimento del conflitto armato e dell’instabilità politico-economica nell’ex colonia belga, l’Occidente celebra paradossalmente proprio il perseguimento delle sue politiche cosiddette impropriamente di decolonizzazione. A spese delle popolazioni locali – morti che camminano – e dei soliti morti ignoti e dimenticati – milioni e milioni – delle donne stuprate e dei bambini costretti a fare la guerra, degli sfollati che scappano dall’inferno per trovarne un altro.

Cessate il fuoco e accordi di pace restano spesso lettera morta senza nessuna attuazione, mentre il conflitto continua a uccidere per arricchire i magnati dell‘industria occidentale e delle economie emergenti.

La comunità internazionale non ha mai mostrato adeguata attenzione alla crisi congolese e il silenzio di Europa e Stati uniti continuano ad essere assordanti su un conflitto alimentato da tensioni etniche e da rivalità tra i poteri in campo per il controllo di ricchi depositi soprattutto di oro, uranio, rame e coltan. Mentre le multinazionali incrementano gli affari con governi, crimine organizzato e i cosiddetti gruppi di ribelli.