«Cerchi lavoro?», è la domanda trabocchetto. L’immigrato appena salvato dal barcone deve barrare in fretta il foglio precompilato con le domande, scritto in italiano, letto in fretta in italiano da un funzionario di polizia, con qualche breve tentativo di spiegazione, soprattutto su quella domanda esiziale. Nessuno o quasi dice di no, non vuole protezione gratis, pane senza lavoro. E via, classificato come «migrante economico», anche se la categoria non esiste in nessuna legge e anzi una circolare del Viminale vieta alla polizia espressamente di operare questo supposto discrimine per escludere dalla procedura per lo status di rifugiato.

Secondo le associazioni riunite sotto la sigla «Tavolo nazionale asilo» – ieri in conferenza stampa nella sala Nassiriya del Senato – è questa una delle modalità di respingimenti arbitrari che vengono praticate negli hot spot, le strutture che l’agenda della Commissione europea chiede all’Italia e alla Grecia di implementare al più presto per controllare e selezionare gli arrivi nelle frontiere esterne dell’Ue.

Secondo le ong del Tavolo(incluse Sant’Egidio, Acli, Centro Astalli, Caritas e altre), che hanno monitorato negli ultimi quattro mesi il funzionamento dei primi tre hot spot in funzione (Lampedusa, Pozzallo e Trapani) insieme al presidente della Commissione parlamentare sui diritti umani Luigi Manconi e al presidente emerito del Consiglio europeo dei rifugiati Christopher Hein, queste strutture sono «il perno di un sistema di discriminazione suggerito dall’Europa ma illegale».

Alla fine è la nazionalità a decidere: se sei «Sia» o non sei «Sia» – la sigla viene usata dalle guardie di frontiera macedoni per indicare chi viene da Siria, Iraq e Afghanistan e ha maggior possibilità di vedersi riconoscere l’asilo in Germania, e tutti gli altri, «migranti economici» da respingere. Anche la polizia italiana divide i migranti in base alla nazionalità, anche se da noi questa selezione non ha alcun senso, l’Italia – in coerenza con le sue leggi – non ha adottato neanche una lista di paesi considerati sicuri di provenienza. E poi, come ricorda Hein, oltre alla Convenzione internazionale di Ginevra del 1951 anche il testo unico sull’immigrazione chiarisce senza ombra di dubbio che si deve valutare la posizione del singolo richiedente asilo che fugge da una situazione personale di rischio per persecuzioni e situazioni violente all’interno di una comunità, una nazione o un clan familiare.

Sono 1.200 attualmente le persone che si trovano negli hot spot italiani e tra poche settimane dovrebbero raggiungere i 2.100 per l’entrata in funzione di altri tre centri (Porto Empedocle, Augusta e Taranto). Più altri hot spot che potrebbero aggiungersi nei prossimi mesi in Puglia se, sigillata la rotta balcanica, i profughi dalla Grecia si dovessero aprire una strada verso il Nord Europa dall’Albania attraverso l’Adriatico.

Finora la rotta del Mediterraneo centrale riguarda pochi siriani o iracheni e in maggioranza africani. A parte gli eritrei, che hanno buone possibilità di ottenere il modulo 3C per l’asilo, la maggior parte vengono raggiunti, una volta compilato il foglio notizie precompilato della polizia, da un provvedimento di «respingimento differito» non dissimile dal vecchio foglio di via: obbligo di lasciare l’Italia entro 7 giorni dal’aeroporto di Fiumicino. «Naturalmente non si dice con quali soldi e con quali documenti», precisa il vice presidente dell’Arci Filippo Miraglia.

Molti di questi giovani non trovano altra via che finire sotto traccia, fuori dalla legalità, alcuni anche minorenni, come quelli che l’Arci di Palermo ha trovato a vagabondare per le strade. Ragazzini del Gambia, del Senegal, della Nigeria che ieri, riuniti dal circolo Colpo Grosso di Palermo hanno parlato in videoconferenza al Senato, raccontando in un inglese molto incerto la loro odissea. «Investire su interpreti e mediatori culturali – fanno presente Miraglia e Manconi – sarebbe un risparmio per lo Stato, eviterebbe i costi di ricorsi e di una integrazione più difficile».