«Sono così scontento delle enciclopedie, che mi sono fatto questa enciclopedia mia propria e per mio uso personale». Nasce così la Nuova enciclopedia di Alberto Savinio (1891-1952), una raccolta di «voci» apparse nella rubrica omonima della rivista «Domus», ma anche su Stampa e Corriere della Sera, tra il 1941 e il 1948. Fu lo stesso Savinio a raccoglierle e conservarle per farne un libro, che tuttavia uscì postumo, per Adelphi, nel 1977. Oggi la casa editrice guidata da Calasso lo ripubblica tale e quale (con i medesimi 12 disegni di Savinio e senza alcuna introduzione) nella sua collana tascabile (pagg. 401, € 15,00), dopo la prima ristampa del 1985. Le sole novità sono il quadro in copertina (qui L’isola dei giocattoli, nella prima edizione Atlante) e in quarta un commento di Giorgio Manganelli, che parla della Nuova enciclopedia come di un libro «desolatamente solitario» e definisce Savinio «un profugo, un favoleggiatore, un esule, un estraneo». E qui è interessante citare anche Leonardo Sciascia, il quale osservò che «le pagine di Savinio e di Borges, anche le più fantastiche, e appunto anzi le più fantastiche, sono conversazioni» e che «questo accade perché Savinio, come Stendhal e come Borges, è uno scrittore che ha scelto i suoi lettori». Savinio, dunque, per Sciascia, che lo amò quasi quanto amò Pirandello, non può essere un estraneo, poiché «conversa» con i lettori che si è scelto, così come – d’altronde – non è mai infelice: «Non riesco ad essere infelice», diceva di sé.
Chi legge la Nuova enciclopedia una voce dopo l’altra, o procedendo «a naso», prova egli stesso una grande felicità, grazie al tocco magico della scrittura saviniana, l’ostilità dell’autore nei confronti del «pregiudizio della serietà», la sua comicità, l’erudizione, l’espressione di una «gaia scienza». Savinio è scrittore borghese e – nello stesso tempo – eccentrico, precursore con il fratello de Chirico del surrealismo, come gli riconobbe André Breton, impegnato in una continua lotta contro la retorica, contro la pesantezza. Com’è stato ampiamente sottolineato da Edoardo Sanguineti, la battaglia di Savinio è rivolta alla liquidazione dei modelli. Potremmo addirittura dirlo un picconatore: «Al nostro secolo daremo questo nome: fine dei modelli», sentenziò. Con Nuova enciclopedia, Savinio abbatte, naturalmente, il modello enciclopedico: «Oggi non c’è possibilità di enciclopedia. Oggi non c’è possibilità di saper tutto», scrive alla voce «Enciclopedia». Per cui la sua «nuova enciclopedia» è assolutamente personale e contiene oltre duecento voci scelte a proprio gusto (da Abbiategrasso a Giostra, da Libertà a Proust, da Punteggiatura a Stupidità…), che tuttavia potremmo comodamente raggruppare in grandi aree tematiche, dettate dalle passioni di una vita: l’infanzia, la lingua, l’etimologia delle parole, i sogni, i miti greci, la metamorfosi, l’utopia…
Se, però, l’importanza del periodo infantile («rimane la parte più affascinante del mio passato»), dei miti («i Greci sono i primi e i soli ad avere tra i loro dei degli artisti») o dei sogni («li aspetto, li desidero, non ne posso fare a meno») è ampiamente riscontrabile anche nei suoi romanzi e racconti, qui il suo discorso sulla lingua – che concilia inventività linguistica e chiarezza – è particolarmente originale e approfondito. «La correttezza della lingua – sostiene – è la prima qualità dello scrittore (…). Nell’opera di fantasia, la fantasia stessa, se vogliamo, può consentire una certa quale fantasia anche di scrittura: ma lo storico, il filosofo, il critico hanno il dovere di essere corretti, chiari e precisi». A questo proposito, in Italia c’è bisogno di «una lingua chiara e leggera, monda tanto di enfasi tribunizia, quanto di oscurità pseudofilosofica o ermetica». Ciò che conta – discorso attualissimo – è la ricerca di un adeguato «imballaggio delle parole, ossia il modo migliore di far stare le parole dentro la pagina letteraria, senza che si urtino tra loro, né soprattutto che le parole prepotenti e maleducate si espandano nello spazio delle modeste e discrete». Savinio, probabilmente il «miglior fabbro» del nostro Novecento.