Pochi sanno che i «parchi nazionali» sono un’invenzione istituzionale del governo degli Stati Uniti d’America, ancor meno sono coloro che sanno che negli Usa non è mai esistito un Ministero dell’Ambiente e la tutela ambientale è affidata ad un dipartimento che dipende dal Ministro degli Interni. Sono due fatti fortemente connessi che hanno a che fare con la visione della Natura che s’impose negli States a partire dalla metà del XIX secolo. Una visione della tutela ambientale profondamente diversa da quella che scaturì in Europa come vedremo tra breve. Ma prima val la pena fare un passo indietro.

«Pensate alla piaga dilagante di Londra – denunciava William Morris alla fine del XIX secolo – che ingoia nel suo abominio campi e boschi e brughiera, senza pietà e senza speranza, frustrando i nostri deboli sforzi di affrontare anche i suoi mali minori, come il cielo carico di fumo e il fiume lordato, pensate al nero orrore e allo spietato squallore dei nostri centri industriali, così atroci per sensi non avvezzi, che è di cattivo augurio per il futuro della nostra razza pensare che un uomo possa vivere in mezzo a tutto ciò con un minimo di serenità. » (W. Morris, Come potremmo vivere…, p. 129) .

QUESTE PROFETICHE PAROLE DI WILLIAM Morris, scritte agli inizi del ‘900, nascono da un filo rosso che parte dalla visione elitaria e idealistica di Thomas Carlyle, dal suo disgusto per la funzione omologante e dequalificante del capitalismo, e passa per John Ruskin, il maestro di Morris e padre fondatore del socialismo romantico in Inghilterra. Con Ruskin, infatti, la critica del capitalismo diviene critica del degrado della natura (e del paesaggio) e critica della dequalificazione del lavoro, con una rivendicazione di pari dignità per l’artigiano e l’artista, e del diritto a un lavoro piacevole e gratificante. Con Morris, ci sarà il tentativo di innestare nella cultura politica del movimento operaio quelle valutazioni estetiche, quel rispetto della «bellezza», quella tutela della qualità della produzione che erano assenti dal dibattito nella sinistra marxista.

ANCHE NEL RESTO D’EUROPA si registrano, nella seconda metà dell’Ottocento, movimenti di artisti e intellettuali che, sia pure con minore spessore culturale e politico, denunciano il degrado del paesaggio e chiedono allo Stato di intervenire. Ciò accade soprattutto in Francia dove è la dimensione puramente estetica dell’artista, in particolare del pittore, a determinare le prime forme di resistenza al degrado paesaggistico. A Barbinzon, un villaggio ai margini della foresta Fontainebleau, alcuni giovani pittori, con a capo Théodore Rousseau, si erano ritirati, a partire dal 1830, con il proposito di rinnovare la pittura, vivendo a stretto contatto con la natura, abbandonandosi alle emozioni e abbandonando le regole storiche e la tradizione.

ACCANTO A QUESTA VISIONE ROMANTICA si svilupperà nell’Ottocento un approccio scientifico ai fenomeni naturali che vede gli scienziati preoccupati per la riduzione della biodiversità, denunciando la riduzione della fauna e la minaccia di estinzione di alcune specie. Ma, per molto tempo, rimangono voci nel deserto, espressioni di élites colte e sensibili che avranno difficoltà a produrre effetti nelle scelte concrete di tutela ambientale. È nel Nordamerica, invece, che l’influenza romantica andò a intrecciarsi con una visione della Natura-Museo, senza sottovalutare il peso della storia delle«riserve indiane», ovvero l’ideologia delle istituzioni totali, per dirla con Foucault, che produrrà ben presto i suoi frutti nella realizzazione delle prime aree protette e dei parchi nazionali. Come mai questi nascono proprio presso il popolo del Far West, della frontiera mobile, della conquista infinita come segno collettivo, il popolo che era riuscito a sterminare i bisonti in pochi anni, che aveva rinchiuso i nativi americani in spazi sempre più angusti e invivibili?

La risposta non è univoca. Un insieme di fattori, sia culturali che ambientali, porteranno a istituire le prime riserve e i primi parchi naturali. Già nel 1832 viene istituita la riserva di Hot Springs (Arkansas); nel 1864 l’intera vallata di Yosemite, insieme a Maripese Greve, viene dichiarata «area protetta»; infine nel 1872 si registra la nascita del mitico Yellowstone, il primo parco nazionale del mondo, che copre un territorio di 800.000 ettari. In pochi anni seguirà l’istituzione di altri parchi nazionali sotto la spinta di una forte ricerca di identità nazionale che negli Stati Uniti vedrà nei parchi naturali la loro consacrazione.

A DIFFERENZA DELL’EUROPA, con la sua sedimentazione storica di piccole città, di paesi e villaggi, di piccola proprietà contadina diffusa capillarmente, negli Stati Uniti si registrava una lacerante soluzione di continuità tra la campagna, gestita da poche grandi aziende, e la città. I parchi naturali svolgevano un ruolo di compensazione, in chiave ludica e romantica, di un rapporto armonico uomo-natura negato dal modello di sviluppo imperante. C’era un bisogno profondo che legava l’identità nazionale, il mito delle origini (Marsh, 1864) e l’istituzione di parchi naturali che negli Stati Uniti vengono definiti per la prima volta «nazionali».
Ben diversa la situazione in cui vengono istituiti in Europa i parchi nazionali nel XX secolo. Innanzitutto, a differenza del Nordamerica, non vi erano nel Vecchio Continente grandi spazi non antropizzati, ad eccezione della Russia e dei paesi dell’estremo Nord (Svezia, Norvegia, Finlandia), ma sempre in luoghi poco accessibili se non nella breve stagione estiva. E poi l’Europa è ricca di monumenti e testimonianze storiche che attraversano millenni, ed ha forti radici culturali e identitarie (anche troppe). Queste differenze hanno ritardato l’istituzione dei parchi nazionali, ma ne hanno soprattutto modificato qualitativamente il senso e l’obiettivo. Sotto la spinta di scienziati preoccupati del degrado ambientale prodotto dall’industria e dall’urbanizzazione selvaggia, il parco nazionale assumeva un’altra valenza. Non è un caso che il primo parco nazionale istituito in Europa nasca in Svizzera, in un paese di grandi tradizioni civiche e un alto livello culturale, e abbia un carattere prevalentemente scientifico. Sarà, infatti, la Società Elvetica di Scienze Naturali a promuovere e istituire nel 1914 il Parco dell’Engandina, che rappresenta anche il primo esempio di recupero ambientale di un’area fortemente degradata, un’area che aveva subito un pesante attacco alle sue foreste secolari per alimentare le fornaci delle fonderie della prospera – a quel tempo – industria metallurgica elvetica. L’esempio elvetico innescherà un meccanismo emulativo, che vede ancora una volta protagonisti, insieme ad altri attori sociali, le società scientifiche. In Italia, ad esempio, i primi parchi nazionali, quelli del Gran Paradiso e dell’Abbruzzo, nascono nel 1922-23 grazie alle pressioni esercitate dalla Lega nazionale della protezione dei monumenti naturali, dall’Associazione Pro Natura e dalla Società botanica italiana. Ma la proliferazione dei parchi nazionali e la crescita della coscienza ambientalista verrà bloccata progressivamente dalla crisi economica degli anni Trenta che sfocerà nella seconda guerra mondiale, e bisognerà attendere la seconda metà degli anni ’60 del secolo scorso perché la questione della tutela ambientale e la istituzione di nuovi parchi si riprenda la scena. E’ questa una correlazione forte che si presenta, ciclicamente, nel cuore dell’economia mondiale. Ogni volta che la crisi economica o la stagnazione riemergono, i problemi ambientali – di tutela, salvaguardia e conservazione – vengono ritenuti marginali.

L’ISTITUZIONE DEI PARCHI NAZIONALI, passando dal Nord al Sud Europa e ai paesi del Mediterraneo, subirà una profonda trasformazione negli obiettivi istituzionali. Il parco naturale nato negli Usa come «museo naturale» deve confrontarsi con la sfida sociale ed economica di aree antropizzate in cui la tutela ambientale deve necessariamente combinarsi con il miglioramento delle condizioni economiche della popolazione. In altri termini: il parco nazionale nell’area del Mediterraneo deve affrontare la sfida e la contraddizione tra sviluppo economico capitalistico e tutela ambientale. I parchi nazionali dovevano nei paesi mediterranei, con alti tassi di disoccupazione e abbandono/degrado ambientale, servire proprio a questo: diventare un laboratorio di sperimentazione e ricerca di una possibile alternativa a questo modello di sviluppo iniquo e inquinante, a partire dalle specificità territoriali e dalla partecipazione degli abitanti dei parchi nazionali. Purtroppo, dopo una prima fase di entusiasmo e alcuni casi di successo, i Parchi nazionali, a partire dal nostro paese dove godevano anche di un ottima legge istitutiva, si sono spenti e trasformati sempre più in carrozzoni burocratici in cui l’unico obiettivo rimane quello dello sviluppo turistico e quindi della mercificazione dei beni naturali. Triste fine per una gran bella esperienza. Ma, non è detto che un nuovo ciclo vitale non si possa aprire anche per i parchi nazionali che hanno resistito alle pressione dei poteri economici e all’egemonia culturale del «parco-azienda» che deve produrre principalmente risultati economici.