Oltre sessant’anni fa un ragazzino bretone minuto e già virtuoso del pianoforte e dell’arpa ricevette in dono dal padre, liutaio appassionato a tempo perso, uno strumento che si era perso nei secoli, ricostruito utilizzando antichi disegni trovati nei codici: l’arpa celtica dei bretoni. Era il 1953. Quello strumento tintinnante e un po’ fatato diventò negli anni ’70 il simbolo della rinascenza di un’intera cultura, quella bretone, con un significato esattamente opposto alle meschinità sovraniste e campanilistiche di oggi: una «piccola nazione» riscoperta come cuore e simbolo di una rete di comunità libere. Il ragazzo di cognome faceva Kozh Stivelloù,che vuol dire «le antiche fonti», il mondo della musica e della cultura imparò a conoscerlo come Alan Stivell. L’arpista, compositore e intellettuale bretone, oggi nella prima metà dei suoi settant’anni ha appena pubblicato un disco magnifico intessuto di collaborazioni a tutto campo che è davvero un ritorno alle sue «antiche fonti» libertarie: si intitola Human- Kelt, e festeggia la sua lunghissima, avventurosa carriera.

IN ITALIA lo potremo ascoltare il 21 a Roma all’Auditorium Parco della Musica, il 22 a Mestre, al Teatro Corso, il 23 a Morbegno, Sondrio, Auditorium di Sant’Antonio. Nel disco ci sono, ospiti, anche, diversi musicisti italiani: «Vincenzo Zitello è un grande amico, quasi un fratello – racconta Stivell- Angelo Branduardi l’ho incontrato a metà degli anni ’70, e la prima cosa che mi ha detto è stata che lui sentiva di aver due padri spirituali, Bob Dyaln e…il sottoscritto. Se cercate su internet, troverete un nostro duetto per la televisione francese giusto di quel periodo. Io ho suonato in un suo disco, lui qui ricambia in diversi brani. C’è poi Marco Canepa dietro il mixer, una splendida persona: il suo studio a Rapallo è molto vicino a Portofino, dove io nel 1966 feci la mia prima apparizione fuori dai confini francesi».

Humans- Kelt celebra un lunghissimo percorso. Cosa direbbe a un giovane musicista intenzionato a seguire i suoi passi?: «Gli direi che il sogno non è quello di diventare una star, ma di trovare e sviluppare qualcosa di originale e mai tentato. Di cercare di ascoltare tutti i tipi di musica, anche quella delle proprie radici. Ecco, gli direi, in due parole: radici e innovazione». Ma oggi il picco d’attenzione è drasticamente sceso, e la musica è una serie di click veloci sulla tastiera: «Vero. Ma io ho sempre saputo di proporre qualcosa di alternativo, e sono felice di avere avuto un pubblico anche con numeri grandi, per la mia musica. Che potremmo definire underground popolare. C’è sempre qualcuno con mente e cuore aperto per apprezzare radici e eclettismo. Questo disco è una summa delle mie proposte. Non tutti apprezzeranno tutto, ma va bene così. Non sapevo che avrebbe preso la strada delle collaborazioni con musicisti da tutto il mondo. Ma a un certo punto s’è imposto da solo così: con l’ospite giusto al posto giusto in ogni brano».

NEL DISCO, oltre agli amici italiani: «Ci sono anche Bob Geldof, e Carlos Núñez, Francis Cabrel, Fautomata Diaware, Murray Head, Yann Tiersen, Andrea Corr». È un brutto momento per l’Europa. Qualcuno impugna il concetto di «piccole patrie» come armi contundenti, il contrario di quanto accadeva agli inizi della sua carriera con la riscoperta del mondo bretone, che ne pensa? «Vado avanti con le mie idee, perché sono forti e radicate abbastanza da reggere l’urto di questi tempi: in sostanza, rispetto per la Terra, e per ogni forma vivente, per tutto quello che non è ego. Tenendo presente i miei limiti, come tutti».