Lei si chiama Anima in pena, ammazza le domeniche di ansia a letto con le briciole di Gentilini, e nel viavai tra Terracina, il luogo dell’infanzia, e Roma medita su cosa significa crescere, sulla solitudine, sui traumi e l’inadeguatezza di fronte alla vita. Ma N-Capace, esordio al cinema di Eleonora Danco, autrice e attrice di teatro e per la radio non è, o non solo almeno, un film alla prima persona anche se la regista ne è interprete mettendo in scena una scopertissima autofinzione in cui il flusso della scrittura visiva passa attraverso la fisicità dei corpi. Una fisicità performativa e di primi piani, di sguardi e di conflitti, con la macchina da presa che incalza i personaggi, e la regista stessa, cercando il punto di rottura di una possibile fragilità. E intanto Danco mescola come una maga frasi, imbarazzi e confessioni con umorismo, autoironia, dolorosa consapevolezza.

Scompone, ricompone, complici la libera precisione del bel montaggio di Desideria Rayner, e l’eccentricità elettronica di Markus Archer, confonde memorie e tracce di una città che non c’è piû, Roma, e di cui odia certe mutazioni, e scruta la spiaggia dove da bambina aspettava il permesso della mamma per fare il bagno. Picconatrice su un letto bianco provoca, mette all’angolo, ci fa ridere di impacci e di luoghi comuni con le sue domande sul sesso, sul piacere, sulla prima volta, sull’amore, sui sogni per il futuro in un paesaggio umano nel quale sembra di essere un tempo altro.

L’oggi dei ragazzini per i quali le donne sono sempre tutte un po’ troie, e che una donna che gode va bene per divertirsi ma non per sposarsi. E che studiare è noioso specie se ti sei iscritta alla scuola di parrucchiera come Maria, che i libri come gli altri sedicenni tra la piazzetta di Terracina o le periferie romane non li leggono più. C’è chi si pensa idraulico o pizzettaro e se votasse non ci andrebbe morissero tutti, quello che è vero è il dispiacere del padre andato via di casa. O chi mangia tantissimo e mangiare è una delle tre cose più belle della vita insieme a scopare e a cacare.
Il passato degli anziani, donne e uomini nella campagna e negli appartamenti, le loro storie raccontano fidanzati e mariti violenti, di padri autoritari, di chi come Amelia a sei anni raccoglieva le olive ed era un gioco. Il sesso lo dovevi scoprire da solo, e le braccia scoperte erano vietate.

Al centro di questi incontri c’è il corpo a corpo tra la regista a suo padre, quasi il motivo che tiene insieme tutto, da cui partono e dove ritornano le altre storie. Di cosa parlano i due? Della mamma che è morta anni prima, dell’infanzia e dei tabû: dimmi se avevi avuto rapporti prima della mamma incalza la regista. O: perché quando in tv c’era la pubblicità dei tampax cambiavi canale? L’uomo rifiuta di rispondere. Della solitudine, dei ricatti affettivi. Ma soprattutto è questo lo spazio in cui diviene visibile la cifra narrativa della realtà, quasi che questo conflitto padre/figlia si trasformasse nel conflitto delle immagini, tra l’occhio di chi filma e ciô che è filmato, dichiarandone la messinscena, dunque la profonda verità. Danco dice di essersi ispirata a Bunuel e ai surrealisti, anche se qualcosa nel modo di avvicinarsi ai suoi protagonisti ricorda Franco Maresco. Di certo con il regista di Belluscone, come con altri, Danco condivide la necessità di interrogare la natura delle immagini nello specchio di realtà e finzione.

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Di che sono un’anima in pena, grida all’uomo Eleonora. Non posso, non voglio replica lui. E le resiste, si sottrae, sceglie il silenzio. Ma è il mio film, me lo rovini devi dire questo e quello insiste lei, devi dire che sono una incapace, che nin ho combinato nulla; non lo penso dice lui, e lei scopre di nuovo la finzione, la rivela per attirarlo nel suo gioco. Così, messo in difficoltà, è costretto a ammettere che in fondo preferisce vivere con la badante che con quella figlia martellante, nella casa in cui entrambi all’improvviso appaiono come degli astronauti.

Questo entrare e uscire dal bordo delle immagini ( della vita?) è forse la cifra più forte di questo film spiazzante (doppia menzione al Torino film festival, dove era in gara) nel disegnare traiettorie per lo sguardo di geometrica improvvisazione, in cui le nostre abitudini di spettatori vengono messe alla prova un po come tutti i personaggi. E però non si puô che seguire questa flaneur vagabonda, nuda o vestita di bianco, nei suoi contorcimenti rabbiosi e insieme pieni di malinconia, che infine ci parlano di noi, e di un tempo collettivo, in quella forbice tra vecchiaia e adolescenza, lo spazio del possibile e del tutto è accaduto, dei sentimenti palesi e in cui ancora rimane un lato di mistero. Il cinema nasce lì.