Esistono due modi per ricordare e rendere omaggio a Severino Cesari, dalle pagine del quotidiano cui ha dedicato quasi vent’anni del suo lavoro. Il primo consiste nel ricostruire un percorso intellettuale unico, che lo ha visto protagonista discreto e spesso silenzioso di quarant’anni di cultura italiana. Per farlo, occorre partire proprio dal manifesto, di cui ha curato le pagine culturali confezionando e lanciando «La Talpa», l’inserto dedicato interamente ai libri.
I libri sono stati i compagni di strada di Severino, gli oggetti, gli agglomerati di pensieri, idee, sogni, passioni che non ha mai cessato di interrogare, con un’attenzione al nuovo, una volontà incessante di scoprire e sdoganare nuove strade e tendenze, che dalle pagine culturali di un giornale lo hanno portato direttamente nel cuore dell’editoria. Prima con «Ritmi», la collana di Theoria nella quale, affiancando il compagno di progetti e avventure di una vita, Paolo Repetti, ha avviato un processo di ridefinizione delle categorie letterarie attento al fantastico, al genere, alle nuove frontiere del virtuale. Poi, a partire dal 1996 e sempre insieme a Paolo Repetti, con il progetto di Stile Libero, una mini collana di tascabili fortemente innovativa incistata nel cuore di un colosso come Einaudi e capace di crescere fino a trasformarsi in un vero e proprio sistema editoriale, il cui unico segno distintivo – contenuto nel suo stesso nome – era ed è sempre rimasto l’assoluta libertà di ricerca, e la capacità di intercettare non i bisogni consolidati dei lettori, ma quelli ancora allo stato latente: quel magma di idee e di impulsi creativi che non è ancora «libro», ma che ha già, in potenza, un pubblico di lettori pronto a intercettarlo e a identificarsi con esso.

È STATO LO STESSO SEVERINO, in un bellissimo pezzo pubblicato sulla Stampa lo scorso anno per il ventennale di Stile libero, a rievocare l’incontro con lo stato maggiore di Einaudi, dal quale scaturì non soltanto il via libera alla collana, ma anche l’autorizzazione a operare direttamente su Roma, con un livello di autonomia che non aveva precedenti, in via Biancamano: segno evidente della lungimiranza e dell’intuizione di Giulio Einaudi in persona, il quale del resto aveva già avuto modo di conoscere l’acume, il rigore e l’ampiezza e profondità di sguardo di Cesari in un lungo dialogo a distanza il cui frutto, Colloquio con Giulio Einaudi (pubblicato da Theoria nel 1991, poi riproposto dalla stessa Einaudi), rimane un autentico caposaldo nella storia della cultura e dell’editoria italiane.

Racconta Severino Cesari: «Avevamo questa idea, che libri e lettori diversi potevano parlarsi in una collana che faceva di tutto: narrativa italiana, straniera, varia, saggistica. La scommessa era tenere insieme comicità, fumetto, ricerca letteraria, crime… David Foster Wallace con Roberto Benigni, i ’giovani cannibali’ e le grandi star del crime italiano e internazionale. Ci avrebbe pensato il lettore a unire con la matita gli infiniti puntini che dividevano un libro dall’altro. Che cosa faceva di un libro uno Stile libero? Una ’corrispondenza di amorosi sensi’ tra parole forse lontane».
Davvero il compito era affidato al solo lettore? Certamente spettava a lui unire i puntini, ma a segnare la traiettoria, a garantirne l’esistenza stessa, c’era il lavoro di una squadra di menti pensanti, di cui Cesari è stato ispiratore, mentore e maestro. Con un intuito che rasentava la rabdomanzia e una capacità di immedesimazione empatica con l’autore e le sue emozioni che non aveva quasi precedenti, Severino ha saputo trovare non in una ma in dieci, cento occasioni, «quell’unico elemento che permette di fare un libro come fosse ogni volta la prima volta»: un elemento che, ci ricorda l’articolo cui stiamo attingendo, non è, in fondo, nient’altro che una voce.

SU QUESTO PUNTO, Cesari non avrebbe potuto essere più netto: «O l’autore e il libro hanno una voce che può anche non piacerti ma non si era sentita, o non ha senso sperare di rispondere alla segreta domanda di senso di un lettore che ancora non si è neppure manifestato. Tutto qui, in fondo. Ma tu lo sai che c’è, questo lettore, questa lettrice, e aspetta il libro che non c’è ancora, l’autrice sconosciuta che tu pubblichi tremando e diventa inaspettatamente un successo. Perché ha interpretato un bisogno nascosto, non ancora espresso, ma che doveva avere per forza un rapporto con la voce che qualcuno degli editor aveva sentito».
Il frutto di questa ricerca ventennale è sotto gli occhi di tutti: da Niccolò Ammaniti e Simona Vinci ai Wu Ming; da Carlo Lucarelli e Giancarlo De Cataldo a Maurizio De Giovanni, fino agli ultimi, fulminanti esordi, che si chiamino Giacomo Mazzariol o Luca D’Andrea, Stile libero ha ridisegnato i confini della narrativa italiana, proponendo nuove chiavi di lettura e di ricerca, in una perenne e rinnovata caccia ai bisogni nascosti e inespressi di un lettore mai così virtuale e reale al tempo stesso. E di tutti questi autori Severino è stato editor, lettore appassionato, punto di riferimento, attraverso una predisposizione all’ascolto che aveva qualcosa di mistico.
Non a caso, quasi tutti i suoi editing si concludevano con una lettura ad alta voce del testo, affidata all’autore, che Cesari accompagnava con il capo leggermente reclinato, teso a percepire le minime sfumature di tono, pronto a intervenire anche solo per proporre una pausa, una virgola in più, un dettaglio anche minimo, ma necessario perché la voce dello scrittore emergesse in tutta la sua potenza e novità.

Questo, dunque, è un primo modo per rendere omaggio a Severino Cesari, e sarebbe già di per sé sufficiente a farne percepire la statura intellettuale e umana. Ma non spiegherebbe lo straordinario fenomeno che, in queste ore, si sta verificando sui social media, e in particolare sulla sua pagina Facebook. Si moltiplicano testimonianze, saluti, ricordi, in un clima nel quale la malinconia di amici, scrittori, colleghi, si arricchisce quasi ogni volta di una nota di serena gratitudine. È stato Gianni Riotta, amico di lunga data e compagno nell’avventura al manifesto, a sintetizzare nel modo migliore il carattere davvero senza precedenti di quanto sta accadendo, quando in un suo breve status scrive: «Chi predica che i social media stiano creando un deserto di sentimenti umani, disperdendo le comunità, farebbe bene a dare una reverente occhiata oggi alla pagina di Severino Cesari e leggere assorto le migliaia di fiori digitali, le parole e i pensieri, deposte in omaggio alla città invisibile che aveva creato».

QUANDO LA MALATTIA che lo ha piegato si è manifestata per la prima volta, Severino ha deciso di trasformarne il senso. Anziché ribellarsi l’ha accolta e ne ha ascoltato il messaggio, trasformandola in paradossale opportunità per un esercizio il cui fine ultimo era il riscatto attraverso la cura. Cura non solo medica; cura dell’anima, ricerca di un difficile punto di equilibrio tra il lento, inevitabile decadere del corpo e il pieno, inusitato godimento di spazi vitali tanto più preziosi in quanto sottratti alla scontatezza dell’abitudine, e restituiti al loro valore più autentico.

QUESTO PERCORSO, Severino ha voluto condividerlo: aprendo una pagina Facebook – lui che ai social si era accostato con sospettosa prudenza, studiandoli a lungo da lontano – e scandendo il percorso della cura in un susseguirsi di racconti, pagine di diario, commenti sui suoi autori e sui libri più amati. Con scrittura tersa, elegante, ironica, ha saputo raggruppare attorno a sé una comunità di lettori innamorati della sua voce, ricreando, stavolta da autore, quella corrispondenza di amorosi sensi che aveva inseguito per una vita intera dedicata all’editoria.
Con molta cura, si intitola il libro che Severino ha costruito partendo dai suoi post, e al quale ha lavorato fino all’ultimo giorno: ed è la cura, per le voci, per gli autori e, da ultimo, per i suoi amici, virtuali e non, che ci lascia in eredità. Nella cura, più che in ogni altra cosa, stanno le ragioni della sua grandezza.