Nella «società della trasparenza», chi si rende visibile è altrettanto innocuo. Sembra questa la sintesi di una serie di malintesi relativi anche – e non solo – al velo, in particolare quello islamico, attorno a cui si sono affastellate molte congetture e interpretazioni.
Offrire tutto, denudabile e disinnescato dai pericoli, appartiene al contemporaneo «velo immigrato» e alla percezione, soprattutto europea, che se ne ha. Spesso è una paura fantasmatica agitata in nome della «sicurezza nazionale» e infine della resa alla visibilità, a tutti i costi e con ciò che ne consegue.
Secondo Rosella Prezzo, filosofa, saggista e raffinata traduttrice (è tra le prime a cui si deve l’arrivo in Italia di alcuni testi capitali di Maria Zambrano), uno dei nodi sta nella lettura del simbolo che si sposta tra il velo, il rivelamento e il disvelamento e che – nella sua storia critica – si è depositato in molte forme della rappresentazione.
Dalla filosofia, alla letteratura e all’arte, i significati del velo sono molteplici, approfondirli consente di avere più strumenti per decodificare anche il presente. Veli d’Occidente (Moretti&Vitali, pp. 140, euro 15 – collana Pensiero e pratiche della trasformazione diretta da Annarosa Buttarelli, la prima edizione è del 2008 per Bruno Mondadori), è l’analisi che Prezzo ha inteso consegnare alla discussione pubblica in una riedizione aggiornata, affilata e attuale.

Cosa è cambiato in questi ultimi dieci anni nella percezione del velo?
Si tende a fare di ogni velo un burqa. In una percezione approssimativa non si specifica mai di che velo islamico si sta parlando. La ragione per cui ho scritto questo libro corrisponde a un mio atteggiamento, cioè comprendere i sintomi della contemporaneità nella sue trasformazioni. E per me il velo, più che un segno di arcaicità, è un sintomo della nostra contemporaneità. Basta pensare al cambiamento dell’uso del velo in questi decenni da parte delle donne musulmane. Nella storia, sia islamica che coloniale, il velo ha avuto molte funzioni, per esempio nella guerra di Algeria quello bianco delle algerine era simbolo della liberazione di tutto un popolo.
Se poi pensiamo alla differenza tra quel che erano solo per i nostri nonni i veli orientali, cioè il simbolo di esotismo sensuale e di vagheggiata lussuria da harem, e le paure, l’insofferenza, l’ostilità che oggi si proiettano sul «velo immigrato». Il velo quindi, sintomo di un mondo in cui entrano in relazione e conflitto quei luoghi che erano tenuti separati, e in una dialettica tra il Qui e l’Altrove.

Crede che il simbolo si sia pervertito?
Mi viene in mente l’esempio della Francia dove l’idea di laicità è stata ridefinita in funzione dell’islam, penso alla legge del 2010 contro l’uso del velo islamico a scuola in quanto offesa dei valori nazionali, democratici e laici. Ora, la laicità riguarda lo Stato, ma i cittadini non sono obbligati al laicismo e possono avere e praticare le religioni che vogliono e che desiderano esprimere. Essendo paesi coloniali sia la Francia che l’Inghilterra hanno da anni la presenza di islamici e non mi risulta sia una pratica democratica quella di confezionare una legge ad hoc per una sola parte della popolazione, in più di genere.

Che cosa è «richiesto» alle donne?
Da una parte, in contesti islamisti, alle donne è richiesto di tenere salda la bandiera della tradizione o della «matria». Quello è il loro compito. Sembra che tanto più l’islamismo diventa radicale tanto più il velo delle donne diventa integrale. Dall’altra parte, nell’epoca coloniale di cui sentiamo ancora l’eco, lo svelamento diventa il simbolo della modernizzazione. In realtà, nell’intima logica del colonialismo, non erano tanto le donne che dovevano essere liberate quanto l’islam che doveva essere eliminato.

Un’ossessione, tutta occidentale, di svelare le musulmane…
È una lunga storia. Per esempio Lord Cromer, governatore britannico in Egitto agli inizi del XX secolo e cioè quando la maggior parte delle donne portavano il velo, che fossero musulmane, cristiane o ebree, menziona solo le donne musulmane, descrivendole «oppresse dal velo islamico» da cui la civiltà occidentale ha il compito di liberarle. Peccato che lo stesso Lord Cromer era contemporaneamente, in Inghilterra, il presidente della Lega maschile contro il suffragio universale allargato alle donne…

Anche ebree e cattoliche dunque. In che modo il velo storicamente si deposita in tutte e tre le religioni monoteiste?
Sì, in tutte e tre le religioni monoteiste il velo è all’origine dei racconti della Rivelazione. In quello biblico è Dio stesso a velarsi nell’incontro con Mosè. Attraverso un velo, quello del Tempio di Israele, che si squarcia alla morte di Cristo, si costituisce il senso fondamentale della rivelazione cristiana. Mentre è attraverso lo svelamento di una donna che Maometto può individuare il divino e riconoscersi come il Profeta. Ma è la religione cristiana ad aver imposto il velo alle donne. Due nomi spiccano: Paolo di Tarso e Tertulliano.
Le lettere ai Corinzi sono composte anche per distinguere il nuovo rito cristiano da quello romano. Se a Roma come in Grecia, uomini e donne per pregare dovevano velarsi il capo, San Paolo toglie il velo all’uomo e lo impone alle donne. Un gesto che ostenta (questo sì) la sottomissione gerarchica delle donne all’uomo, l’unico ad avere un rapporto diretto con Dio. Tertulliano, secondo cui le donne sono la porta del diavolo e devono dunque mostrare la propria penitenza, arriva a vietare alle donne di uscire di casa a capo scoperto. «Noi vi ammoniamo – scrive nel suo De virginibus velandis – a non deviare dalla disciplina del velo, neppure un attimo perché non potete rifiutarlo». E, ancora: «L’essere esposta allo sguardo altrui è come uno stupro, e anzi la violenza carnale è meno malvagia perché è naturale».

Nel suo libro fa riferimento a scritture che aiutano a chiarire la dicotomia spesso maldestra tra modernità e arcaicità del simbolo. Come è stata la ricezione di questi testi, quando sono arrivati in Occidente?
L’aspetto che indago è anche l’intreccio tra velo, verità e svelamento come uno dei nessi più persistenti nella nostra cultura, dove la secolare relazione intrattenuta dal filosofo con la verità si è collocata nel campo metaforico del denudare, spogliare, svelare. Così anche il velo come metafora per antonomasia del femminile nel discorso psicoanalitico.
Per contro, l’esempio delle Mille e una notte, che arriva in Occidente nel Settecento in traduzioni parziali e manipolate, è molto significativo. Nei testi letterari fondativi della cultura occidentale non esiste qualcosa di simile a questa opera straordinaria in cui protagonista assoluta è l’intelligenza di una donna. Perciò, quando la sociologa marocchina Fatima Mernissi trova tra i banchi di una libreria berlinese un’edizione tedesca di questo caposaldo della letteratura araba, rimane esterrefatta nell’osservarne la copertina che ritrae l’immagine di una donna nuda, dai capelli serpentini e dalle forme vistose, insieme a un sottotitolo che recita Desiderio sessuale e voluttà nelle notti Arabe. Lo sconcerto di Mernissi è dato dal fatto che quella storia dice ben altro. Le caratteristiche di Sherazade sono la memoria, il possesso di una vasta biblioteca e l’intelligenza. Essa sfida la crudele legge patriarcale e, attraverso la sua capacità di raccontare storie, intrecciarle e trasformarle in esperienza in colui che le ascolta, riesce a guarire l’emiro dall’odio verso l’intero genere femminile causato dal tradimento di una delle sue mogli.

Vi è il pericolo di un inedito sguardo coloniale oltre che proiettivo?
Lo sguardo coloniale è entrato a far parte di quello che si può chiamare il nostro «inconscio storico». Ed esso riaffiora nel contemporaneo caos-mondo che abitiamo. Ma è proprio l’impatto con questo velo immigrato a svelare a noi stessi le pieghe della nostra storia. Non si tratta di «aprirsi all’altro» né – di contro – di imporre ciò che per noi è un’appropriata «liberazione». Ma il fatto è che noi riusciamo a capire chi siamo perché è sempre l’altro che ci fa conoscere il punto cieco da cui guardiamo. Questa è la necessità del nostro tempo che è anche una rinnovata intelligenza politica.