Lo schema principale suggerito dal drammatico ciclone sardo è comprensibile: un livello planetario, con lo straordinario che si avvia a divenire normale; uno localizzato, con la cattiva politica del territorio dello Stato italiano e in Sardegna.

La tensione istituzionale è a mille, ora si leggono anche gravi danni e devastazioni nel patrimonio archeologico (come a Olbia e a Bitti). Il ciclone fa correre le dure critiche portate al Piano paesaggistico regionale dei sardi, Ppr (s), di Ugo Cappellacci. Il governatore lo sa, maledice i mutamenti climatici, corre senza pudore da una conferenza all’altra presentando un piano che autorizza cementificazione e consumo del territorio, dopo la cancellazione dei fondi per la protezione idrogeologica. Diceva due giorni fa su questo giornale Piero Bevilacqua «l’incultura e l’irresponsabilità del ceto politico nazionale e degli amministratori locali (ma anche di tanti privati cittadini che costruiscono abusivamente) tende a sconfinare verso ambiti di natura penale».

Ma la tutela del territorio non sta solo nelle pur essenziali norme urbanistiche, tantomeno nella un po’ fuorviante retorica dello scontro fra Ugo Cappellacci e Renato Soru, mentre il quadro politico tradizionale è in liquefazione. Serve un’appartenenza e un’idea di paesaggio. Le norme sono oggetti dinamici che preludono, o registrano, idee nate dal reale. E di fronte a un’innegabile recrudescenza della caccia al territorio sardo per speculazioni di ogni genere e specie, i «cacciati» stanno costruendo un nuovo, straordinario fenomeno: migliaia di cittadini, ormai in collegamento fisico e digitale, costituiscono comitati esprimendo irriducibilità al sacco del territorio e l’esigenza di luoghi diversi, non inquinati; beni comuni strettamente connessi al diritto a decidere su di essi. Mettendo in scacco, e comunque in imbarazzo, i «cacciatori», aggregando saperi e inviando le proprie riserve al Savi (il servizio della sostenibilità ambientale, valutazione impatti e sistemi informativi ambientali). Saras è costretta a chiedere due rinvii per studiarne l’imprevista e forse sottovalutata documentazione.

È chiaro il no al Ppr (s) di Cappellacci ma, nell’orizzonte del pregevole Piano paesaggistico regionale licenziato da Soru, non si identificano neppure con quest’ultimo politico. Perché le visioni, conservatrici o riformiste, della politica tradizionale, sono dall’altra parte del cancello. Al di qua altre storie.

Quella di Porto Torres, con il «No Chimica Verde» e altri comitati contro la pericolosa centrale voluta da Eni, che dovrebbe pagare ed eseguire bonifiche e invece detta condizioni. Una centrale nutrita da un’onirica ipercoltivazione di cardo. Darà alla regione storicamente celebre per l’agricoltura il glorioso destino di produttori di bustine biodegradabili per la spesa. Il dramma occupazionale produce larghe intese politiche. Quella di Cossoine, con lo straordinario referendum che liquida una centrale termodinamica su una terra fertile e di grande pregio paesaggistico. La storia dell’Arborense, contro il tentativo della Saras (progetto Eleonora) di cercare ovunque gas perforando una ricca zona agricola. E persino sotto lo stagno protetto di S’Ena Arrubia, habitat della fascinosa «gente rossa», i fenicotteri rosa di un paesaggio sardo e mediterraneo, dalla Camargue all’Africa. Quella di Bosa, con il «no» di tanti cittadini nei confronti di sindaco e Condotte s.p.a. per l’idea di costruire un villaggio turistico e un campo da golf nella stupenda Tentizzos, entro il piano golf di Cappellacci, cavallo di Troia contro il Ppr.

Vallermosa, Bortigiadas, Giave, Gonnosfanadiga, Guspini, Sardara, Ottana, Pabillonis, San Gavino Monreale, Villanovatulo e tanti altri ancora, una serie impressionate di richieste di autorizzazioni. Ai comitati e ai sindaci si uniscono professionisti, medici e cattedratici non embedded. Si coglie il ruolo centrale del lavoro cognitivo e la ricchezza di giovani intelligenze che non vorremmo più perdere.

La più efficace tutela del territorio starebbe in una nuova idea di paesaggio, e nelle sue risorse umane, in grado di realizzare quella superiorità democratica e di efficienza dei beni comuni che ha condotto Elinor Ostrom a un Nobel.

Il percorso verso una nuova isola possibile attraversa densi nodi storici che «vengono al pettine»: a partire dal tragitto, non facile e antropologicamente drammatico, dalla produzione della fabbrica alla produzioni del territorio basate su paesaggio, identità e cultura.

Riemerge, in forme insospettate eppure in continuità, anche la «questione meridionale» e si incrocia con rinnovate istanze di autodeterminazione. Nei paesaggi del Mezzogiorno, meridiano, e insulare, risiedono grandi risorse e possibili ricchezze. La posta in palio è altissima, perciò vi si esercitano le maggiori violenze contro «l’uomo e l’ambiente». Un filo rosso capitalistico devasta le falde e il lavoro, viola corpi di donne e uomini con malattie mortali da Taranto e Porto Torres, dalle discariche campane a Sarroch.

Si imporrebbero, a tutti i livelli, radicali bonifiche.