I compleanni di Pietro Ingrao sono sempre occasione di riflessione sulla sua biografia e sul suo pensiero politico. Quest’anno, compleanno numero 99 il 30 marzo, si è deciso di promuovere alcune iniziative nei luoghi della formazione del giovane Pietro: Lenola, città nativa; Formia, dove frequentò il Liceo classico Vitruvio e scoprì l’antifascismo degli insegnanti Gioacchino Gesmundo e Pilo Arbetelli uccisi alle Fosse Ardeatine; Fondi (i primi rapporti con alcuni intellettuali); Roccagorga (si occupò della costruzione di una Casa del popolo negli anni cinquanta); Gaeta (le vacanze al mare, i ricordi di gioventù). Su questi luoghi molto amati dal festeggiato scrive lo stesso Ingrao nei primi capitoli dell’autobiografia (Volevo la luna, Einaudi, 2006) ricordando radici mai recise.

In qualche occasione l’ex presidente della Camera, schernendosi, ci ha tenuto a sottolineare la sua formazione “provinciale” indicandola come un limite. In effetti, è arduo dire cosa sia l’«ingraismo» e a quali riferimenti culturali faccia riferimento (i convegni di queste settimane potrebbero aggiungere elementi utili a capire).
Il fascino della personalità di Ingrao – altro che provincialismo – sta nella sete di conoscere, capire, approfondire senza arrendersi a una visione accomodante e tecnicistica della politica. Per lui, quest’ultima non può privarsi di una dose di creatività e utopia per ridisegnare assetti sociali e inediti valori (basti ricordare la riflessione ingraiana sui «nuovi beni» che precede la vulgata sui «beni comuni»). Da qui prende le mosse l’ingraismo, specifica variante del comunismo italiano.

L’Ingrao politico è stato spesso definito utopista e visionario perché la politica resta per lui tensione morale e progetto, oltre che comunicazione con gli altri e un po’ profezia del tempo futuro: non solo tecnica o amministrazione dell’esistente. Queste peculiarità ingraiane non piacevano ai suoi «nemici» nel partito, a iniziare da Giorgio Amendola fino ai «miglioristi» della corrente di Giorgio Napolitano. Resta tuttavia un mistero spiegarsi le origini del pensare l’agire politico così particolare da parte di un intellettuale di Lenola, profonda provincia italiana, con scarsa conoscenza della realtà internazionale, che in gioventù aveva una forte vocazione per cinema e poesia.
Lo stesso Ingrao ha più volte ricordato come siano stati gli eventi tragici del Novecento (il fascismo, la guerra civile spagnola, la seconda guerra mondiale) a sospingerlo oltre l’intimismo intellettuale che avrebbe preferito rispetto a un eccesso di vita pubblica. Ingrao appartiene alla generazione che è stata “costretta” a fare politica. Del fascino giovanile per la parola faranno fede puntigliosità e perfezionismo che sono restati al politico negli scritti e nelle interviste.

Dopo la morte di Palmiro Togliatti nel 1964, Ingrao inizia a parlare insieme ad altri di «nuovo modello di sviluppo» per superare l’orizzonte della «democrazia progressiva» che non poteva portare il Pci al governo causa conventio ad excludendum. A spingerlo in quella direzione può essere stata la profonda conoscenza della società agricola (tornano le radici di Lenola e dintorni) che si andava trasformando in realtà marginale nell’Italia che diventava società prevalentemente industriale. Il nome di Ingrao – innovatore per eccellenza, conservatore solo quando si trattò di sciogliere il Pci – è spesso legato all’analisi puntuale delle trasformazioni del capitalismo italiano, alla sollecitazione della democrazia partecipativa, allo studio sistematico del potere decentrato degli enti locali, alla riforma delle istituzioni e – negli anni Ottanta – alla crisi degli stati nazione e all’affacciarsi sulla scena dell’Europa politica come ipotesi (Masse e potere del 1977, la conversazione con Romano Ledda Crisi e terza via del 1978, Tradizione e progetto del 1982 sono libri che tracciano un percorso). Il Crs da lui presieduto prima e dopo l’incarico di presidente della camera (1976-1979) è stato inoltre fucina di discussioni, ricerche e formazione di varie generazioni di studiosi.

Chi ha amato da giovane cinema e poesia prima di diventare uno dei massimi dirigenti del Pci, deve aver guardato al fare politica in modo totalizzante come un limite, pur accentandone la disciplina (la «ragione di partito»). E deve aver conservato la curiosità intellettuale per altre forme di pensiero e di linguaggi che non fossero la politica. Nonostante la laurea in giurisprudenza, che gli tornerà utile quando dirigerà il Centro riforma dello Stato (Crs) a iniziare dal 1975 e si occuperà di decentramento e forme della democrazia, nel pensiero di Ingrao è più il progetto che la norma la principale preoccupazione.

Con la forza delle idee, ha lasciato un’impronta sulle discussioni più vitali degli ultimi cinquant’anni della sinistra italiana. Forse è stata la formazione culturale fatta di approcci plurali e non ortodossamente marxista a favorire la ricerca imperniata sul monitoraggio di culture – compresa quella cattolica – e movimenti che chiedevano al Pci di rinnovarsi e di stare al passo coi tempi. È stato ad esempio proprio Ingrao, con il Crs, a promuovere i primi convegni sulla sinistra europea e il possibile destino dell’Europa. Ne sono la riprova gli Annali di politica europea pubblicati dal Crs dal 1988 al 1993 insieme al convegno sul «caso svedese» promosso addirittura nel 1983 in cui si discusse delle conquiste socialdemocratiche del welfare di Stoccolma.

L’Ingrao studioso e innovatore non può quindi essere separato dall’Ingrao dirigente di primo piano del Pci. Quello che ha diretto l’Unità per dieci anni (1947-1957), che nel 1966, all’XI Congresso del Pci (il primo dopo la morte di Togliatti), pose il problema del pluralismo interno e della liceità del dissenso legandolo a un’altra lettura delle modernizzazioni che attraversavano l’Italia (il suo applauditissimo intervento è passato alla storia per quel «non mi avete convinto», contiene però una vera e propria analisi alternativa a quella imperante in quegli anni nel partito e andrebbe riletto in quella chiave). È stato presidente del Gruppo del Pci per due legislature (1964-1972), prima di salire sullo scranno più alto di Montecitorio.

Nacquero a iniziare dagli anni Sessanta varie generazioni di «ingraiani», alcuni della prima diedero vita a il manifesto e si separarono dall’antico maestro rimasto fedele al partito (il «gorgo», dirà oltre trent’anni dopo in un seminario ad Arco della sinistra comunista interna ed esterna al Pci che si poneva il problema di cosa fare dopo la «svolta» di Achille Occhetto). Una fedeltà ribadita al partito fino al 1993, quando decise di abbandonare il Pds. Prima ancora c’era stato il rifiuto a ripetere l’esperienza di presidente della camera (Ingrao disse no alla proposta fattagli da Enrico Berlinguer) perché aveva voglia di tornare a studiare immergendosi nell’attività di ricerca del Crs. I limiti dell’Ingrao politico sono l’altra faccia delle specificità dell’Ingrao intellettuale che abbiamo ricordato fin qui. Non è mai stato un politico puro, forse ha perso alcune occasioni per rendere più incisiva la sua azione nel Pci.
Nell’ultimo ventennio Ingrao non ha mai smesso di pensare, scrivere, parlare, partecipare alle manifestazioni contro la guerra in Kosovo, Afghanistan, Iraq. È sempre stato un punto di riferimento per la sinistra critica.

Negli anni Novanta ha provato a ricongiungersi con il manifesto, partecipando prima all’esperienza del Cerchio quadrato (inserto settimanale curato da Ida Dominijanni) e poi alla seconda serie della rivista mensile diretta da Lucio Magri.
Del resto, tra le sue autocritiche c’è sempre stata quella di non essersi opposto nel 1969 alle radiazioni dal Pci di Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Aldo Natoli, Luciana Castellina, Valentino Parlato, Lucio Magri, Eliseo Milani, Filippo Maone e tanti altri. Con Rossanda ha scritto nel 1995 il libro Appuntamenti di fine secolo segnalando la quantità di problemi irrisolti che il Novecento consegnava al secolo nuovo.

A iniziare dal 1986, sentendosi chissà libero dal ruolo di dirigente di partito, Ingrao pubblica finalmente i suoi libri in versi. Si ripeterà quando la scomparsa del Pci gli porrà il problema di usare un altro linguaggio – più complesso e meno certo di quello della politica – per capire le novità legate al crollo del Muro di Berlino. Il dubbio dei vincitori (1986), L’alta febbre del fare (1994) e Variazioni serali (2000) sono le sue antologie poetiche. Nel primo volume Ingrao fa i conti con utopia, sconfitta, e dubbio. Nel secondo, le domande riguardano il «fare» come limite. Le poesie di Variazioni serali sono infine elogio dell’esitare. Se c’è un filo che lega questa ideale trilogia, va ricercato nella sottolineatura delle emozioni individuali alla ricerca di senso: un’attenzione a temi che purtroppo la politica ignora. Il vecchio Pietro ritorna attento come in gioventù ai segni semantici delle parole, ad ambiguità e incompiuto. Con questa scelta ci stupiva ancora una volta come quando in una intervista – già ultraottantenne – svelò l’interesse per la videomusic che lega forme e ritmi diversi della comunicazione.

C’è un dolore in queste giornate di festa per il compleanno numero 99. È l’assenza di Laura Lombardo Radice (quest’anno avrebbe compiuto 101 anni), la sua amata compagna, che un libro curato da Chiara Ingrao (Soltanto una vita, 2005) ci ha restituito nella sua complessità biografica. A fare compagnia a Pietro ci sono i figli Chiara, Renata, Guido, Bruna e Celeste, i nipoti e i pronipoti. E ci sono i tanti che vogliono bene a Ingrao e provano a ispirarsi a quel singolare metodo del pensare e fare che è l’«ingraismo».

Info su www.pietroingrao.it