Ventiduemila nuove licenze per case da gioco e slot machines: Matteo Renzi a modo suo è un creativo. Quindicimila nuove agenzie, settemila corners, punti scommessa piazzati per le strade, e in cambio, una tantum, il governo incasserà un miliardo, tra prelievi e bandi, che lo aiuteranno a coprire una manovra che di coperture ne ha pochissime.
Gli operatori del settore protestano, le opposizioni pure, un po’ tutte, con l’M5S, per bocca di Di Maio, più rumoroso di tutti: «Invece di bloccare slot machines e centri scommesse, il governo li usa per finanziare le sue becere manovre elettorali». L’allusione è al taglio della Tasi, che non solo Di Maio ma davvero tutti sospettano finalizzato più a rimpinguare i forzieri elettorali di Matteo Renzi che a supportare l’esile ripresa.

Però l’invasione di bische non basta certo a finanziare una manovra che sul fronte coperture è tra le più spericolate e non è detto che basti. Il testo non è ancora stato trasmesso al Parlamento, e il ritardo di tre giorni potrebbe preludere a qualche sorpresa. Ludopatia a parte, il grosso della manovra, come strepita Brunetta, è in realtà a deficit. Dovrebbe essere una di quelle mosse che l’Europa solo a sentirne parlare spara a zero. Invece le voci, informali ma autorevoli, in arrivo da Bruxelles dicono il contrario esatto. «C’è un buon clima», fanno filtrare i guardiani del rigore. «L’Italia – spiegano – è più solida che nel 2014, dunque non dovrebbe esserci rinvio al mittente della manovra».

Qualche zona d’ombra per la verità c’è. L’Italia chiede di alzare il deficit di 0,2 punti, pari a tre miliardi tondi, impugnando a giustificazione l’emergenza migranti. L’Europa nicchia, e alla fine concederà meno del richiesto: «Aspettiamo di vedere quali saranno davvero le spese per i migranti», fanno sapere le solite «voci». L’accordo si troverà nel mezzo. L’Europa concederà un minore aumento del deficit, l’Italia si accontenterà e recupererà il miliardo e passa mancante (se tutto va bene) tagliando qua e là la spesa sociale.

Ma l’accordo si troverà, e in realtà Renzi e Padoan non sono mai rimasti col fiato sospeso. La sparata in stile Varoufakis del premier era a scopo puramente propagandistico. Quando ha minacciato di ripresentare la legge identica in caso di rinvio da parte dell’Europa, Renzi alzava la voce sapendo benissimo che quel rinvio, lo stesso che ha colpito nei giorni scorso la Spagna, era in realtà estremamente improbabile per non dire impossibile.

Le sicurezze del rampante premier e del suo ministro dell’Economia non potevano essere basate sulla struttura della legge, che anzi in sé sarebbe quanto mai esposta agli strali dei rigoristi. Erano piuttosto dovute all’accordo politico stretto da Matteo Renzi prima di tutti con Angela Merkel.

L’Italia ha fatto il suo compito a casa: una riforma istituzionale dettata dall’Europa in nome della necessità di limitare gli spazi di democrazia parlamentare a favore di un rafforzamento secco dell’esecutivo. È il segreto di Pulcinella. In Parlamento, nei giorni dell’approvazione a marce forzate della riforma, tutti sapevano perfettamente che la fretta di palazzo Chigi era appunto dovuta alla necessità di portare a casa lo scalpo del Senato in tempo per ottenere in cambio il semaforo verde sulla manovra in deficit. Oltretutto, per il fiorentino è il momento di incassare anche la prebenda per il prezioso aiuto prestato a Frau Angela e allo stato maggiore dell’Unione europea al momento di stritolare Tsipras e il suo referendum.

Dunque l’Europa userà un occhio di riguardo, e Padoan comprensibilmente tripudia: «Abbiamo quadrato di nuovo il cerchio. Diminuiamo il debito, riduciamo il deficit e allo stesso tempo forniamo sostegno espansivo alle famiglie. Restituiremo ai Comuni gli introiti della Tasi e proseguiremo con i tagli ai ministeri». I quali per la verità, come tutta la Spending Review, per ora non hanno prodotto i risultati sperati. Ma sono particolari che non turbano il gaudio di palazzo Chigi.

Più fastidiose alcune voci critiche che partono da vicino. Da Raffaele Cantone, per esempio, che boccia senza appello l’aumento del tetto del contante a tremila euro. O dalla solita minoranza Pd, che insiste nel denuciare un taglio della tassa sulla casa iniquo, che avvantaggerà soprattutto i già avvantaggiati. «Basta con le caricature, il confronto è sul merito», sbotta Cuperlo, e seguiranno di certo adeguati emendamenti dell’opposizione interna. «Mi auguro che non saranno ascoltate le richieste di arretramento della minoranza Pd», mette le mani avanti Sacconi, ex ministro con Berlusconi e ora presidente della commissione Lavoro della Camera.

Sarà anche vero che il taglio delle tasse non è né di destra né di sinistra, come afferma Renzi. Però se la manovra piace tanto a uno come Sacconi qualche sirena d’allarme dovrebbe suonare. A distesa.