Si chiamava Giuseppe Falaschi, da Sant’Omero, provincia di Teramo. Fatti salvi parenti, amici e vicini di casa, nessuno in Italia sapeva chi fosse. Almeno fino al sei gennaio del 1958, quando, al termine del neonato show televisivo Canzonissima, Lauretta Masiero diede pubblica lettura del biglietto vincitore della Lotteria di Capodanno. Cento milioni si portò via il Falaschi. Primo premio che una trentina di anni dopo ammontava a due miliardi, e che a partire dal 2006 ha raggiunto la ghiotta cifra di cinque milioni di euro. La popolarità della Lotteria di capodanno, poi ribattezzata Lotteria Italia, pur se insidiata e non poco da Superenalotto faraonici, rimane il sogno per antonomasia degli italiani. Forse e soprattutto di coloro che non hanno vinto, o non hanno neppure comprato un biglietto, ma fantasticano su cosa potrebbero fare spendendo cinque milioni di euro. Stasera toccherà al conduttore Amadeus proclamare il Paperone per caso 2018 nel corso del programma I soliti ignoti. E puntualmente scatterà la caccia giornalistica a scoprire il nome del fortunato, dove vive, che lavoro fa, quanti figli ha se ne ha, che ne farà della favolosa cifra. L’appuntamento dell’epifania rappresenta oggi l’espressione più ‘innocente’ dell’impulso radicato nell’uomo a giocare e a scommettere, espresso in centinaia di forme e modi diversi. È un universo complesso, quello dell’azzardo, che dal ’200 in poi si è trasformato in un’ingente risorsa economica cui continua ad attingere lo stato. È un universo dove stabilire quale sia il limite tra il bene e il male non passa attraverso distinzioni dettate dal cosiddetto buon senso. L’azzardo, il gioco, la scommessa sfuggono a spiegazioni semplicistiche, si muovono sul sottile confine tra razionalità ed emotività, si alimentano alla fonte di un bisogno che definire falso sarebbe senz’altro troppo sbrigativo. Gherardo Ortalli, docente dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha curato la mostra Lotterie, lotto e slot machine, L’azzardo del sorteggio: storia dei giochi di fortuna, in corso a Treviso negli spazi della Fondazione Benetton, Palazzo Bomben. Per la Fondazione, Ortalli è responsabile scientifico del settore studi e ricerche dedicato alla storia del gioco. «La mostra vuole offrire al pubblico la possibilità di comprendere cosa rappresenti il fenomeno odierno del gioco, esito di alcuni secoli di sviluppo sociale; groviglio di realtà finanziarie, politiche, etiche, professionali. Aggiungo: il gioco è una cosa molto seria, che va preso come tale da chi ha il diritto, e prima di tutto l’obbligo, di gestire questo aspetto della vita sociale». Il gioco è una cosa seria. Detto così sembra un ossimoro, professore «È un’attività che alla propria base ha pulsioni, abitudini, condizionamenti, contesti economici, molto importanti. Si è voluto insistere su questo, provando a spiegare come, a partire da un certo periodo, la società non solo europea comincia a introdurre un meccanismo che combina la gioia del gioco con la serietà dell’economia e della finanza. In che modo far convivere questi due aspetti sotto il profilo funzionale è la risposta che i governi sono stati chiamati costantemente a dare, con oscillazioni. La scommessa, ad esempio, aiuta a ripianare un bilancio, ma d’altro canto porta denaro non etico e di conseguenza può provocare pulsioni morali, in contrasto a loro volta con un’altra pulsione: il gioco è qualcosa di innato, dunque irreprimibile tramite un semplice divieto. Va però regolata, altrimenti diviene dannosa per l’intera società». Snodo fondamentale secondo Ortalli, il XIII secolo, quando si creano i termini dell’economia moderna, cui l’azzardo appartiene. L’invenzione della borsa e il gioco in borsa rappresentano la scommessa dell’impresa finanziaria, al pari dell’assicurazione stipulata dagli armatori delle flotte sulle vie del commercio. «La scommessa buona e razionale, che tiene conto di ciò che la sorte può produrre, segna la nascita del gioco moderno». In parallelo alla sfida positiva, cresce lo sfruttamento della pratica popolare dell’azzardo. Ad essa, nel ’400, si contrapporranno i roghi dei Falò delle Vanità. Tra le fiamme bruciano i dadi, le carte, i tavolieri, e insieme le parrucche, i profumi, i libri proibiti. È una soluzione tanto radicale quanto inutile. Passata la buriana moralizzatrice, inizia una nuova stagione. Le autorità governative si riservano il diritto di gestire totalmente il gioco, a cominciare dal Lotto. Così sarà fino al ’700, secolo per eccellenza dell’azzardo e insieme della reazione ad esso, che toccherà il suo apice nell’800. È allora che buona parte dello schieramento socialista e cattolico apre una violenta polemica sul gioco, considerato una tassa sulla speranza dei poveri in una vita migliore. A nulla serve, di nuovo. Impossibile bloccare l’incrocio tra denaro e sorte, ribadisce il professore. Ma è proprio questo incrocio a generare un connubio pericoloso. Cosa è cambiato oggi? Ortalli identifica nell’accelerazione il fattore più devastante «Sono le modalità attuative del gioco informatico a rappresentare la novità. Basti pensare che se un tempo, per scommettere, occorrevano magari due ore, adesso bastano venti minuti. Una cosa soltanto non è mutata: il sentimento profondo della speranza. Mi gioco tutto perché la vita non mi ha dato niente».

NOTE STORICHE

La speranza che muove a sfidare la sorte, l’ha descritta come soltanto lui sapeva fare nelle vesti di poeta. Lui è il principe Antonio De Curtis in arte Totò. La sua poesia, Speranza, appunto, potrete leggerla sulla colonnina bianca all’interno di uno degli ambienti della mostra, prima di seguire il racconto cronologico di sette secoli di gioco d’azzardo. Comincia così «Ogne semmana faccio na schedina: / mm levo ‘a vocca chella ciento lire/ e corro quanno è ‘o sabbato a mmatina/ ‘o Totocalcio pe mm ‘a ji giucà». E due strofe oltre «Nun piglio niente, ‘o saccio… e che mme ‘mporta/ io campo sulamente cu ‘a speranza. / Chu cchi ‘m aggia piglià si chesta è ‘a sciorta/ chisto è ‘o destino mio… che nce aggiafà?». La schedina di Totò vi tornerà in mente durante le varie tappe del percorso. Perché, fatti salvi i giochi riservati alle classi privilegiate, quelli esposti nelle vetrine erano gli strumenti che il popolo usava per inseguire il sogno di un’esistenza più dignitosa. Emblematico l’acquerello settecentesco di Giovanni Grevembroch, ispirato a un’immagine del XV secolo. I ribaldi e i barattieri sono ritratti mentre giocano tra una coppia di alte colonne in piazza San Marco, a Venezia. Solo entro quei limiti angusti era lecito scommettere, concessione a un divieto impossibile da rendere assoluto. Due incisioni sono dedicate ai Falò delle Vanità di Norimberga e Vienna, organizzati nel 1452 e 1454 dall’abruzzese Giovanni da Capestrano, giurato e poi francescano, che predicò nell’Europa settentrionale e orientale. Una cedola fiorentina del 1556, attestante la scommessa sul sesso del nascituro tra l’allibratore Andrea Buondelmonti e Vincenzo Lenzi, e un registro delle scommesse per l’elezione del papa nel 1555, documentano la consuetudine di prendere a pretesto di gioco qualsiasi evento. Regolamenti, avvisi di pene inflitte a chi non li rispetta, proibizioni, precedono la sezione dedicata al Settecento, secolo dei Ridotti, vale a dire delle sale dove l’azzardo era consentito. Un vassoio da Ridotto e un’incisione, Nobile al Ridotto, li ricordano. La grande sarabanda delle lotterie è rappresentata da opere quali Immagine della lotteria di Henricus van Soest svoltasi nel 1695 alla Borsa di Anversa, dalla stampa delle Leggi britanniche (1733 – 1834) relative a lotterie di interesse pubblico, dall’incisione Tirage de la Loterie (1834), da un’infinità di biglietti emessi nel XVIII e XIX secolo, da una splendida serie di giochi a estrazione olandesi (Kleine Loteria e Lottery van kleyne beeldekens) e francesi (Petit Jeu de Loterie pour les enfants, Loterie du Polichinel (Pulcinella), Loterie de la Guerre d’Italie, Loterie des Arts e des Metiers…). Non mancano gli esempi di manuali per aiutare la fortuna. Versione veneziana della Smorfia partenopea è Il vero mezzo di vincere al Lotto, 1812. Il suo autore, mascherato sotto lo pseudonimo di Fortunato Indovino, traduceva in numeri sogni e visioni. Satana nelle sembianze del gioco poteva indurre in tentazione anche gli uomini di chiesa. Tentazione che secondo Antonio Lucci e il suo Risposte al dubbio se ai Regolari sia lecito il giuoco del Lotto, 1836, andava respinta pur se la vincita fosse rimasta in ambito religioso. Personalmente ignari della loro esistenza, grazie alla mostra abbiamo scoperto Il Piacevole Gioco del Pela il Chiù, la Cavagnola, il Biribissi (o Biribisso) diffusi in Italia tra la fine del XVI e il XVII secolo. Sono, nell’ordine, un gioco a dadi, un gioco a estrazione basato su una scacchiera divisa in caselle numerate o figurate su cui si metteva la posta, un gioco con tavoliere numerato da uno a settanta e un sacchetto che conteneva i talloncini corrispondenti. Alla stessa famiglia, nonostante il nome blasonato, appartenevano Il Gioco Reale e il Lotto Reale, congegnati in modo tale da ‘sparire’ in un attimo se fossero arrivate le forze dell’ordine. Infoltiscono il già nutrito campionario degli intrattenimenti ludici d’epoca la Lotteria da salotto; i giochi della Barca, del Bog, della Papessa Giovanna, del Faraone; le carte napoletane, toscane, bolognesi e gli impianti utilizzati per stampare le famose carte Teodomiro Dal Negro; la roulette con relativi gettoni e fiches. Il Novecento è rappresentato da un repertorio di manifesti della sterminata collezione Salce di Treviso, capolavori di grafica che promuovono la Grande Lotteria Italiana, la Lotteria Nazionale pro orfani di guerra, la Grande lotteria pro monumento ai caduti mantovani, la Lotteria di Tripoli, la Lotteria di Monza. Marcello Dudovich ha lasciato il suo inconfondibile segno nel manifesto della Lotteria pro missioni italiane all’estero, 1923. Porta la firma di Gigi Lardani quello della Lotteria di Capodanno/ Canzonissima, edizione 1959. Conduceva lo show un magnifico quartetto composto da Delia Scala, Paolo Panelli, Nino Manfredi e Don Lurio. Manfredi interpretava la macchietta del barista ciociaro Bastiano, che invitava a comprare il biglietto, cinquecento lire contro cento milioni, con una frase divenuta celebre, Fusse che fusse la volta bona. Per Vando Trillini da Ancona, lo fu.

I DATI, LA PATOLOGIA

La rivista francese illustrata Magasin Pitoresque pubblicò nel 1845 un articolo, De quelques livres contre le jeu, corredato da una xilografia (in mostra) che raffigurava il Demone del gioco. L’orrenda creatura ha la coda arricciata, le zampe che terminano in lunghi artigli; il corpo è ricoperto di carte e dadi, una zampa stringe un sacchetto da cui fuoriesce una cascata di gioielli. Rivisitato oggi, il Demone avrebbe le sembianze delle slot machine, cui è dedicata la stanza finale del percorso. Non certo un omaggio, anche alla luce della voluta tristezza dell’allestimento. Quanta crudeltà si nasconda dentro il mostro slot lo denunciano le cifre dell’azzardo legale, che lo vede indiscusso dominatore. In sei anni, a partire dal 2010, il giro dell’azzardo di stato è salito da circa sessantun miliardi di euro a novantasei. All’erario sono andati, nel 2016, dieci miliardi e mezzo. Davanti agli schermi delle quattrocentomila macchine presenti sul nostro territorio sono stati giocati, al 31 dicembre dello scorso anno, ventisei miliardi e trecento ventiquattro milioni. E sempre a proposito di schermi, i cinquantaquattromila punti scommessa delle video lotterie hanno incassato ventitré miliardi e cento e tre milioni. Ma quanto spendono pro capite i giocatori italiani? Una ricerca del 2017, condotta sulla base dei dati Aams, Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, evidenzia situazioni drammatiche soprattutto nel Nord, tra Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto. Ciascuno dei mille e cento abitanti di Caresanablot, provincia di Vercelli, butta al vento annualmente, ventiquattromila duecento ventotto euro, a fronte di settantuno slot presenti in paese. Spendono ancora di più, in proporzione, i seicento ventitré residenti di Bosnasco, Pavia, con diciassettemila cento ventiquattro euro inghiottiti da trentasei slot. Il cittadino di Milano, quasi ottomila macchine, va poco oltre i mille euro; settemila macchine e meno di novecento euro sono i numeri di Torino, duemila seicento e mille e trecento settantacinque quelli di Bologna, millenovecento e milleduecento quelli di Venezia. Scendendo a Sud, le diciassettemila slot di Roma mangiano a ogni residente novecento e sessantacinque euro, le cinquemila e cinquecento di Napoli cinquecento e quarantacinque, le mille e cinquecento di Bari quasi ottocento, le mille e cinquecento di Reggio di Calabria seicento e sessantotto, le duemila e seicento di Palermo quattrocento. Secondo la Polizia Postale, sono ventitré i miliardi divorati nel 2014 dal circuito illegale su internet. I dati 2015 dicono che le persone affette da gioco d’azzardo oscillano tra l’uno e mezzo e il tre e otto per cento della popolazione totale, mentre il due per cento risulta dipendente in maniera patologica. Infine una precisazione a proposito del termine ludopatia, che non indica l’eccesso di piacere per il gioco, ma l’amore per la vincita. Il ludopatico, dal gioco, non trae alcun piacere. Contrae invece una forma di schiavitù da cui è durissimo affrancarsi.

La mostra

Lotterie, lotto, slot machine. L’azzardo del sorteggio: storia dei giochi di fortuna

Fondazione Benetton Studi e Ricerche, Palazzo Bomben, Treviso, fino al 18 febbraio

Per informazioni, 0422 5121, fbsr.it

La mostra, curata da Gherado Ortalli con il coordinamento di Patrizia Boschiero, ha il pregio ulteriore di essere ambientata negli spazi di un palazzo che con il contiguo Palazzo Caotorta costituisce la sede della Fondazione. L’edificio, fine del XIII secolo, venne rinnovato in epoca rinascimentale. Ulteriori trasformazioni si ebbero tra il XVII e il XVIII secolo. Il giardino, che si apre sul lato sinistro e affaccia su un ramo del fiume Cagnan, è stato disegnato dall’architetto Domenico Luciani con i paesaggisti Ippolito Pizzetti e Luigi Latini. Al centro, una scultura di Carlo Scarpa dono del figlio Tobia (lds)

Glossario

In occasione della mostra, sul sito della Fondazione è consultabile un piccolo Glossario dei giochi. Il consiglio è di scaricarlo e stamparlo, per consultarne le voci nel corso della visita. Molti i vocaboli sconosciuti ai non addetti ai lavori. Ecco qualche esempio. L’astragalo è un ossicino cubico del piede. Quello dei montoni e delle capre veniva usato nell’antichità come dado a quattro facce. A Nano Giallo, gioco da tavoliere composto da cinquantadue carte, partecipano in forma individuale da tre a otto persone. Cinque delle carte hanno un valore speciale. Piria è vocabolo dialettale veneziano che significa scommessa. Alla voce Slot machine, si scopre che la prima fu inventata a San Francisco nel 1895, e che il nome si riferisce alla fessura, slot, dove introdurre la moneta (lds)

Mexico y suerte

Della New Spain, i possedimenti coloniali dell’impero spagnolo nelle Americhe, faceva parte anche il Messico. Qui, soprattutto in epoca ottocentesca, le lotterie rappresentarono ulteriore risorsa di sfruttamento. Tre i biglietti esposti a Treviso: Lotteria messicana del 20 settembre 1844, Lotteria messicana di san Pedro del 1878 a favore dei malati dell’ospedale di San Pedro de Puebla del 13 agosto 1878, Lotteria di San Pedro del 27 agosto 1878 sempre a favore dei malati dell’ospedale. Messicana è la lastra di ferro illustrata come un ex voto per scommesse, risalente agli anni ’50 del Novecento. Restando nelle Americhe, il biglietto di lotteria della International Stock Company Spa, 10 maggio 1860, garantiva in caso di vincita un premio in gioielli o contanti da uno a cinquemila dollari (lds)