«Bello come l’incontro fortuito di un ombrello e di una macchina da cucire» aveva scritto Lautréamont, considerato un precursore dai surrealisti francesi. Magritte, che era belga, dopo aver riflettuto su una riproduzione de Il Canto d’amore di Giorgio De Chirico, vista nel 1923, e dopo derito all’idea del bello come incontro fortuito, nel 1936 cambiò posizione. Dalla bellezza sprigionata da un automatismo di ciò che è arbitrario del primo surrealismo, passò alla bellezza ragionata. Quell’anno dipinse un quadro con un uovo e una gabbia: segnò la svolta verso un’arte come espressione del pensiero (Leonardo aveva parlato della pittura come «cosa mentale»).

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Anni dopo (1958) Magritte riprese l’ombrello nell’opera Les Vacances de Hegel (titolo ironico sul riferimento dei surrealisti francesi all’Estetica di Hegel e alla sua dialettica). Sopra l’ombrello, c’è un bicchiere: la relazione è tra l’oggetto che respinge l’acqua e l’altro che la contiene. È la risposta a un «problema», cioè l’elucidazione metodica di un’equazione visiva nella quale si riconciliano «l’oggetto, la cosa a questo legata nell’ombra della coscienza e la luce dove tutto ciò deve pervenire», come spiegò l’artista in una conferenza al museo di Anversa nel 1938.

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Surrealisti addio
A René Magritte filosofo, alle relazioni dell’artista con la filosofia è dedicata la mostra al Centre Pompidou Magritte. La trahision des images (fino al 23 gennaio 2017), attraverso un centinaio di quadri (molti anche di collezioni private), disegni e numerosi documenti d’archivio. È una rassegna allegra, il pubblico a volte ride persino (cosa rara di questi tempi a Parigi). Il titolo rimanda a un quadro omonimo del 1929, più noto come Ceci n’est pas une pipe, con il quale l’autore ironizzava con i surrealisti francesi, attraverso un finto riconoscimento del carattere menzognero dell’arte.
A tutti loro – più letterati che artisti – il belga Magritte rimproverava soprattutto il fatto che considerassero la pittura un’arte minore rispetto alla poesia. Le tensioni con André Breton saranno molto forti. Magritte, che si era trasferito in Francia nel 1927, decise di tornare nel suo paese d’origine già nel ’30. Un anno prima, aveva pubblicato un testo polemico sulla rivista La Révolution surréaliste, dove analizzava i rapporti tra parole e immagini. E, per sottolineare la presa di distanza da Breton, dipinse La Trahison des images e numerosi opere composte da figure e parole.

La polemica con i francesi durò nel tempo. Quando Magritte entrò in rapporti epistolari con Alphonse De Waelhens, primo traduttore (in francese) di Essere e tempo di Martin Heidegger, il filosofo gli suggerì di leggere L’oeil et l’esprit di Maurice Merleau-Ponty. Commento acido di Magritte: «Il discorso molto brillante di Merleau-Ponty è estremamente piacevole da leggere, ma non fa certo pensare alla pittura – argomento che peraltro pare essere il suo soggetto. Devo dire che quando questo avviene, si riferisce alla pittura come se parlando di un’opera filosofica ci si preoccupasse del portapenne e della carta che sono serviti allo scrittore». Diversa la relazione con Michel Foucault, con il quale, dopo aver letto Le parole e le cose nel 1966, iniziò una corrispondenza. Dopo la morte di Magritte, a partire da questi scambi, Foucault pubblicherà nel ’73 Ceci n’est pas une pipe. L’artista aveva però rimproverato a Foucault di confondere la rassomiglianza con la similitudine (una vecchia questione della Scolastica).

La realtà derisa
La mostra, curata da Didier Ottinger, dopo una prima sala che presenta Magritte filosofo che dalla bellezza degli incontri dell’azzardo passò ai «problemi», è divisa in capitoli. Tutti indagano i miti fondatori sullo statuto dell’immagine, a partire da quattro «questioni»: parole e immagini, l’invenzione della pittura, l’allegoria della caverna, tende e trompe l’oeil. L’episodio biblico di Mosé che spacca le tavole della legge con rabbia quando si accorse che il popolo di Israele adorava il vitello d’oro, è il testo di riferimento attraverso cui lo stesso Magritte, «pittore figurativo del pensiero astratto», secondo Bernard Blistène direttore del Pompidou, rivendica la dignità intellettuale della sua arte e riflette sull’adeguamento delle immagini (e delle parole) agli oggetti che rappresentano, nella tensione tra legge scritta e raffigurazioni pagane.
La Trahison des images è la risposta, irridente, alla definizione della poesia di Breton a Paul Eluard: «la poesia è una pipa».

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L’invenzione della pittura, come raccontata da Plinio il Vecchio nella Storia naturale, è «impronta» del desiderio amoroso. Sono i quadri con le ombre, evocate da Plinio. La fiamma è l’elemento del terzo motivo nella narrazione della creazione della pittura: qui il rimando è al mito della caverna di Platone. Magritte si considera come chi è uscito dall’illusione della caverna – la stessa in cui i surrealisti si sarebbero invece chiusi. Breton si rifiutò nel ’43 di seguire la proposta di portare il surrealismo «in pieno sole». «Siamo circondanti da tende», diceva Magritte. E proprio di tende parla ancora Plinio il Vecchio, nel racconto della sfida tra Zeuxis e Parrhasios: il primo aveva dipinto un grappolo d’uva in modo talmente realistico che gli uccelli cercavano di beccare gli acini. Ma nella notte Parrhasios dipinse una tenda sul quadro di Zeuxis: lui la prese per vera e cercò di scostarla. Zeuxis ammetterà la sconfitta. Quella tenda diventò – come già nell’interpretazione della pittura del secolo d’oro olandese – il modo per esprimere la distanza beffarda nei confronti di una virtuosità realista.

La mostra parigina termina con la storia delle giovani di Crotone, raccontata da Cicerone: sempre Zeuxis, per dipingere una creatura perfetta, aveva preso le parti più belle di varie fanciulle del luogo. E Magritte, nella Folie des grandeurs, propone una bellezza frammentata.