Più che alla ricerca di un candidato il gioco del centrodestra nel Lazio sembra lo «Schiaffo del soldato». Stefano Parisi, già battuto da Sala a Milano, correrà per il centrodestra. Serviva un nome che non trascinasse nella prevista sconfitta le sorti di Fi e che potesse sottrarsi all’eterna faida che lacera la destra, e quindi FdI, nella regione: Parisi risponde a entrambe le esigenze e in più, ritirando, la sua Energie per l’Italia dalla competizione nazionale elimina una spina nel fianco potenzialmente molto fastidiosa in Lombardia.

In cambio l’ex manager porta a casa quattro dei cinque collegi richiesti, anche se solo due sono sicuri. In questo modo ritiene di poter comunque restare in campo nelle future partite del centrodestra nazionale, anche se (salvo miracoli) una doppia sconfitta nelle piazze di Milano e del Lazio non è precisamente un buon viatico. «Abbiamo deciso di accettare perché siamo un partito nuovo e dobbiamo innanzitutto consolidare la nostra presenza in tutta Italia»: così Parisi, nel post Fb con cui ha dato per primo la notizia del lieto evento, spiega quella che lui stesso definisce «una scelta difficile». Un candidato così poco popolare nel Lazio lascerà spazio a Sergio Pirozzi, che non si ritira ma se lo farà sarà per correre con la 5S Roberta Lombardi, in cambio di un assessorato.

A sbloccare la situazione del Lazio sono stati Gianni Letta e Antonio Tajani, che si candida a diventare il nuovo Letta, vincendo le resistenze dei lombardi come Ghedini e Mariastella Gelmini. Ma il presidente del Parlamento europeo non è solo candidato al ruolo di eminenza grigia e diplomatico numero uno di Arcore. E’ anche candidato alla presidenza del consiglio, almeno negli auspici del gran capo: «Sarebbe una bellissima scelta come premier ed è una persona molto stimata a livello europeo». Una formula eloquente. Che Tajani fosse destinato a diventare il cavallo numero uno della scuderia di Arcore lo si era capito già nel corso della trionfale tournée di Berlusconi a Bruxelles, della quale proprio Tajani era stato il regista. Ma metterlo apertamente in campo oggi significa vibrare una nuova stoccata contro Salvini su quel campo di battaglia che è diventato nel centrodestra il rapporto con l’Europa. Di candidati più sgraditi al leghista non se ne troverebbero facilmente.

Ormai, del resto, per i due alleati ogni occasione è buona per darsele di santa ragione. L’ultima è la critica durissima riservata da Angela Merkel a Trump sul tema del protezionismo. Silvio l’Europeo si affretta a condividere la posizione dell’amica cancelliera: «Il protezionismo di Trump non è positivo neppure per gli Usa». Salvini si schiera sul fronte opposto: «Sto con Trump. Vuole salvare i posti di lavoro». Ufficialmente è solo «competizione interna» tra alleati che tuttavia si sfidano nel proporzionale. Ma stavolta la formula è riduttiva: lo scontro è troppo frontale e troppo quotidiano per essere derubricato a gara in fondo amichevole.

In realtà l’indicazione di Tajani risponde probabilmente a una logica di «competizione interna» tra alleati. Però non con Salvini: con Renzi. Se si arriverà a quel Nazareno-bis nel quale sperano entrambi gli ex soci del Nazareno originale, non può darsi il caso che il Pd schieri nomi applauditi fragorosamente a Bruxelles come Gentiloni e Padoan e Forza Italia debba restarsene nell’angolo. Tajani, europarlamentare da 24 anni, due volte commissario europeo, presidente del Parlamento europeo, è il nome giusto per pareggiare il conto.

La competizione tra Fi e Lega è del resto all’origine anche delle tensioni che squassano i rispettivi tavoli delle candidature. In Liguria, dove il governatore Toti è fortemente sospetto di essere più vicino a Pontida che alla casa-madre, Ghedini ha bloccato due assessori ritenuti poco affidabili. Toti minaccia sfracelli. Ma sul fronte leghista le cose non vanno meglio: la composizione delle liste è diventata per Salvini l’occasione per una Notte dei lunghi coltelli in cui eliminare tutti i sospetti di simpatia per Arcore. Incluso, forse, lo stesso Bossi.