Nel deserto a sud di Israele, in una tribù beduina, fervono i preparativi per il secondo matrimonio di Suliman, padre di quattro figlie di cui la più grande, Layla, va all’università. L’arrivo della nuova moglie nella famiglia può essere celebrato solo dalle donne, che indossano dei baffi finti e intrattengono la sposa con canti e balli rituali finché non arriva il momento dell’incontro col marito, nel privato della stanza da letto della casa che lui ha costruito per lei. Il progetto di girare un film su questa società tradizionale è nato per la regista Elite Zexer ben dieci anni fa. Otto sono stati passati a studiare il soggetto della storia, su cui nel frattempo ha diretto due cortometraggi, e due sono serviti per la preparazione del suo primo lungometraggio che in questi giorni ha presentato alla Berlinale all’interno di Panorama: Sand Storm.

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La madre di Layla, Jalila, non è felice del secondo matrimonio del marito, e gira per casa piena di rancore cercando di tenere sotto controllo le figlie e i loro comportamenti poco adeguati a una società fortemente patriarcale. «Papà mi ha detto che posso» è la loro risposta a ogni suo rimprovero, capovolgendo così la normale concezione per cui è l’uomo di casa, in questi ambienti, a imporre divieti alle «sue» donne. «Suliman è un bravissimo padre – dice Elite Zexer – ama la moglie, le figlie, vuol dare loro tutto: anche qualcosa che sia lievemente al di fuori delle regole, come insegnare a guidare a Layla o concedere a una delle più piccole di sedere in mezzo agli uomini».

Per Layla, che frequenta l’università insieme a ragazzi palestinesi e ebrei che vivono secondo regole assai diverse, questa liberalità del padre è la radice dell’illusione raccontata dal film: quella di poter seguire il proprio desiderio, avere voce in capitolo sul proprio destino.

Quando Jalila scopre la sua storia d’amore con un collega di studi la punisce duramente, ma lei è certa che spiegare le cose a suo padre le consentirà di vivere il suo sogno.

«I beduini sono una società molto tradizionale – spiega la regista – e in questo momento stanno attraversando una fase di obbligata apertura a una vita più moderna. Lottano quotidianamente per conservare le loro tradizioni, che li definiscono, che amano molto e a cui non vogliono rinunciare, per cui cercano di capire come restare attaccati a ciò che sono e contemporaneamente andare incontro alla società contemporanea. Le loro figlie vanno all’università, ma quando tornano a casa sono tenute a seguire le loro regole».

Rispetto a queste regole, Layla fatto un passo di troppo, varcando un confine che è ancora inamovibile, quello di scegliere chi amare e conseguentemente sposare. Ed ecco che la rabbia mal trattenuta di Jalila, il suo censurare i comportamenti delle figlie, si svela per quello che è davvero: un tentativo di salvarle dall’illusione che brucia con violenza Layla quando si scontra con il furente divieto del padre. Lui, d’altro canto, si ritrova a sua volta preso in un tragico paradosso: quanto più potere gli viene conferito dalla società quanto più debole si sente nel suo ruolo di padre e marito. «Durante il film viene privato di tutto – dice Zexer – si ritrova improvvisamente a essere incapace di dare alle figlie e alla moglie ciò che desiderano, che è il motivo per cui è così tanto arrabbiato».

«Cerca di fare del suo meglio – riflette l’attore che interpreta Suliman, il palestinese Haitham Omari – ma la pressione della società su di lui è troppo forte». L’infrazione delle regole, rispetto a cui si sente impotente, lo porta anzi a correre ai ripari combinando un matrimonio per Layla, incapace com’è di accettare con lo stesso candore della figlia la nozione per cui non c’è problema che non possa essere risolto. Sono le donne, dalla loro posizione subalterna, a rivelarsi gli individui forti e volitivi del film, a «lottare per cambiare le regole dall’interno», con le parole di Zexer.

Jalila, disposta anche a essere bandita per non vedere la figlia infelice, e Layla, che si trova davanti a «due cattive scelte»: abbandonare la famiglia e non vederla mai più o rinunciare all’uomo che ama per sposarne uno che non conosce. «Entrambe la faranno soffrire», commenta la regista. Il finale cerca di restituire il realismo di una dimensione in cui i vincoli familiari sono fortissimi, e avvolgono gli individui in una stretta calda e al contempo terribile.

Similmente a La sposa promessa della regista ortodossa Rama Burshtein – anch’esso espressione di una società patriarcale in cui il matrimonio combinato è pratica comune – sulla figlia ricade il dovere di una scelta da cui dipende il bene della sua intera famiglia. «Illudersi che in quel mondo sarebbero in molte a scegliere di fuggire – avverte la regista – sarebbe una supposizione molto sbagliata».